Sì alla biodiversità, no alle corporation: anche il formaggio ha la sua Resistenza
Dall'asta del formaggio di malga al DOP nato in Turchia, alla tutela dei "batteri naturali": i piccoli produttori si ingegnano contro l'omologazione dei prodotti industriali
Il formaggio dei piccoli produttori locali è sinonimo di sapienza contadina, resistenza della tradizione e capacità di operare in accordo coi tempi e i bisogni dell’ambiente naturale. Pur tra le mille difficoltà che s’incontrano per rimanere – come si suol dire – “sul mercato”, come vasi di coccio tra quelli di ferro della grande industria lattiero-casearia: il settore infatti è monopolizzato da 20 aziende internazionali. La metà di loro è europea (tre sono americane e due cinesi) e tutte insieme stabiliscono le regole del gioco, a cominciare dai prezzi delle materie prime.
Venti corporation di dimensione planetaria, per introiti e volumi commerciali, che puntano a un’omologazione delle lavorazioni in nome della semplificazione operativa, della massimizzazione del profitto e delle richieste della grande distribuzione organizzata. L’inevitabile conseguenza? Omologare anche le caratteristiche – e il gusto – del formaggio prodotto.
Eppure dai tre ingredienti base necessari a produrre questo alimento (latte, caglio, sale) sono derivati nel mondo oltre 2mila tipi di formaggi, diversi per forma, colore e sapore. E questa biodiversità straordinaria si ritrova, radunando anche i caseifici più isolati e minuscoli, in occasione dell’appuntamento biennale con Cheese: l’evento di Slow Food, che si apre oggi a Bra, è dedicato a celebrare i migliori formaggi a latte crudo del mondo, nonché i produttori, i pastori e gli affinatori. Quest’anno promuove la via naturale come maestra per continuare a produrre uno degli alimenti più ricchi di storia e proprietà nutrizionali.
Sardo: dai batteri industriali avremo formaggi tutti uguali
Infatti, dopo aver catalogato circa 500 formaggi sull’Arca del Gusto e dopo aver riunito migliaia di pastori casari attraverso i Presìdi, per salvare oltre 100 formaggi in più di 50 paesi del mondo, ora la sfida è quella di proteggere i batteri “locali”. I fermenti – necessari per trasformare il latte in formaggio – si trovano naturalmente nel latte, sulle mammelle degli animali, sul secchio usato per la mungitura, sugli attrezzi in legno, protagonisti di una «biodiversità invisibile» che proviene dal territorio e determina il sapore unico di ogni formaggio.
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«La quantità di batteri lattici necessari per la caseificazione presenti naturalmente nel latte tende a diminuire» spiega Piero Sardo, presidente nazionale della Fondazione Slow Food per la biodiversità. «Addizionare di fermenti industriali un latte crudo non è dannoso per la salute e non è neppure è insensato. Oggi la maggioranza dei casari non munge più a mano, il legno è spesso bandito dai caseifici, il latte passa di tubo in tubo, di acciaio in acciaio: attraversa un ambiente igienicamente perfetto, che azzera la flora batterica. In un millilitro di latte normalmente c’erano un milione di batteri, e di questi, 800mila erano batteri lattici. Oggi nello stesso millilitro di latte ce ne sono meno di 100mila, e i batteri lattici sono 40, 30, 20mila, a volte sono pari a zero».
Sardo: la via dell’innesto per salvare il gusto
Ecco perché l’allevatore sopperisce a questa difficoltà oggettiva, ricorrendo all’aggiunta di batteri. Selezionati, identici, moltiplicati in laboratorio, di poche specie. «Questa scorciatoia azzera i difetti dei formaggi, omologa il gusto e fa la fortuna delle multinazionali che producono le bustine». Tuttavia si può agire anche in altro modo per potenziare, energizzare la flora batterica naturalmente presente nel latte e nell’ambiente di lavorazione.
«Questa – conclude Sardo – è la strada da percorrere secondo Slow Food. La procedura esiste, è ben codificata ed è largamente utilizzata, si chiama innesto e si può ottenere a partire dal latte o dal siero».
La resistenza casearia parte dalle maghe del Trentino
L’innesto può essere quindi uno strumento per tutelare la biodiversità casearia, ma c’è chi usa anche altri mezzi. Un esempio decisamente vincente per valorizzare il lavoro dei casari di montagna è l’asta dei formaggi di malga della Val di Sole e del Trentino, giunta alla sua quinta edizione nella suggestiva cornice del maniero di Caldes. Un’occasione di promozione, certo, ma anche di conoscenza e per qualcuno anche di portarsi in dispensa dei veri tesori caseari: non è un caso che a ogni edizione l’asta veda la partecipazione di chef stellati (l’anno scorso, la friulana Antonia Klugmann, quest’anno la pasticcera e chef leccese Isabella Potì, inserita dalla rivista Forbes tra i 30 giovani personaggi da tenere d’occhio).
Il più caro dei formaggi battuto nel 2019? Un magro a latte crudo, semicotto, di 8 chili e 250 grammi del 2017, prodotto dalla malga Strino, posta a quota 1.937 metri in alta valle di Sole, ai piedi del monte Redival e della catena dell’Albiolo. Prezzo di vendita: 430 euro.
L’asta della Val di Sole che sostiene i formaggi di malgaMa quest’anno sono ben 22 le forme di formaggio stagionato tra 1 e 13 anni messe all’incanto, prodotte da 22 malghe da latte trentine. Luoghi quasi mitici resi noti ai più piccoli di qualche generazione fa dalle avventure a cartoni animati di Heidi. E oggi ancora teatro di una produzione straordinaria, resa tale anche dalla sapienza insostituibile dei cosiddetti “affinatori”. Ovvero di quei professionisti capaci di portare a stagionatura le forme, conferendo al prodotto una qualità superiore e la dovuta maturazione. Il lavoro dell’affinatore miscela ed esalta le caratteristiche organolettiche del formaggio, infatti, sfruttando le diverse condizioni di temperatura e di umidità.
A Cheese 2019 il formaggio che viene dall’Est
D’altra parte, se quella dell’asta può essere una soluzione per dare visibilità e promozione al prodotto, talvolta può non bastare a farlo sopravvivere. Perché la resilienza delle produzioni più piccole, magari attive in contesti socio-economici particolarmente fragili, ha bisogno anche di aiuto politico e finanziario. Come dimostra il mantenimento – e lo sviluppo – di un presidio quale quello del formaggio gravyer di Boğatepe, proveniente dalla regione turca di Kars, grazie al latte delle vacche zavot, che pascolano a 2300 metri sul livello del mare.
«In Turchia, negli ultimi tre anni, la rete Slow Food si è resa protagonista di una grande azione di pressione affinché le autorità competenti riconoscessero lo status di legalità ad alcuni formaggi tradizionali a latte crudo e li riportassero sul mercato», afferma Dessislava Dimitrova, consigliere internazionale di Slow Food per i Balcani e la Turchia.
Ora il presidio sostiene i produttori che lavorano ancora nei pascoli di montagna, consentendo loro di vendere il loro latte a un prezzo superiore del 25% rispetto al prezzo medio pagato nel resto della provincia, potendo ricavare il 7-10% in più rispetto ai produttori industriali di Gravyer per il loro formaggio. Un sostegno che ha portato la produzione a raddoppiare negli ultimi quattro anni, mentre «il numero di famiglie che ottengono una parte consistente del loro reddito dalla produzione di Gravyer è aumentato del 91%» conclude Dimitrova.