Clima: cos’è successo nel 2024 e cosa potrebbe succedere nel 2025

Il 2024 è stato ricco di notizie difficili per il clima e l'ambiente. Ma per il nuovo anno ci sono ragioni di ottimismo

Gli effetti dell'alluvione di Valencia del 2024 © Teresa Tendero/iStockPhoto

Togliamoci subito il dente: no, il 2024 non è stato un grande anno nemmeno per le politiche legate a clima e ambiente. Ma sì, qualcosa di bello è successo. E soprattutto, molto di bello può succedere nel 2025, l’anno che verrà. Perché la cronaca riserva poche gioie ultimamente, è vero, ma non c’è solo lei. Ci sono anche trend, notizie più nascoste ma importanti che vanno interpretate. Per capire dove va il mondo e, magari, provare a cambiarne il corso.

Il 2024 e tutte le sue guerre

Il 2024 è stato l’anno dei conflitti incancreniti. Guerre sanguinose, di cui sempre meno conta come siano iniziate e sempre più conta quanto lontana appare la fine. C’è il Sudan, il più dimenticato dei conflitti scoppiati l’anno prima, nel 2023, ma non affatto meno violento. Non meno di 25mila i morti diretti, tutti da calcolare gli indiretti e qualcosa come 10 milioni gli sfollati.

Parecchio più a nord c’è la guerra russo-ucraina, ormai entrata nella sua fase da Niente di nuovo sul fronte occidentale. Lenti avanzamenti, soprattutto da parte dell’esercito di Mosca, in un contesto di dissanguamento generale delle truppe e della popolazione civile ucraina.

E infine il conflitto in Medio Oriente, che nel 2024 si è allargato con l’invasione del Libano, la caduta del regime di Assad in Siria e lo scambio di attacchi missilistici tra Israele e l’Iran. A Gaza, intanto, il bilancio delle vittime sale sopra le 45mila – anche se le morti indirette si stimano sulle centinaia di migliaia – e Nazioni Unite, Amnesty International, Human Rights Watch e centinaia di esperti considerano ormai l’operato di Tel Aviv genocida.

Lo stallo della diplomazia, anche sul clima

Tutte queste sono storie drammatiche di per sé, senza bisogno degli effetti sul lungo e medio periodo. Ma dal punto di vista climatico, sono questi ultimi a interessarci. E il prezzo da pagare delle guerre, soprattutto di questo genere di guerre, è lo stallo della diplomazia. Il riscaldamento dell’atmosfera è per definizione globale, e le soluzioni necessitano inevitabilmente di un certo livello di governance planetaria. Senza dialogo tra Stati Uniti e Cina – e in seconda battuta Unione europea, India, Russia – è difficile immaginare una qualunque transizione ecologica efficace. Più i conflitti aumentano le differenze politiche tra le grandi potenze, meno è facile realizzare accordi efficaci in ambito climatico.

Il 2024 ci ha offerto una perfetta cartina di tornasole di questo fenomeno con la tripletta dei summit falliti: la Cop29 sul clima di Baku, la Cop16 sulla biodiversità di Cali, la Cop16 sulla desertificazione di Riad. Tutti e tre vertici negoziali organizzati dalle Nazioni Unite, tutti e tre sostanzialmente falliti. Il più seguito, la Cop29 sul contrasto alla crisi climatica, è affondato sull’indisponibilità del cosiddetto Nord globale di finanziare la transizione ecologica in Africa, America Latina e Asia. Lo abbiamo raccontato estesamente qui.

Agire per il clima in un Pianeta diviso

Nessuno ci assicura che in un contesto geopolitico meno teso la diplomazia climatica avrebbe maggior successo – e d’altronde le difficoltà non mancavano anche prima di Ucraina e Gaza. Ma non c’è dubbio che la tensione crescente tra Pechino e Washington e la divisione in blocchi del Pianeta rendano il lavoro più difficile. Senza che l’urgenza del problema venga minimamente meno.

La notizia più sottovalutata del 2024 è arrivata da un centro di ricerca, il programma satellitare europeo Copernicus. Per la prima volta, la temperatura media globale si è tenuta per tutto l’anno al di sopra dei +1,5°C rispetto all’era pre-industriale. Si tratta del limite che l’umanità si era ripromessa di non superare nel 2015 con il celebre Accordo di Parigi. Una vita politica e atmosferica fa. Questo record non è sufficiente per considerare oltrepassato il target planetario – la comunità scientifica avrà bisogno di un periodo di tempo maggiore per confermare il fatto. Ma in pochi sperano ormai di rimanere al di sotto di questa fatidica soglia.

Il contraccolpo verde

L’Europa, intesa come Unione, la guerra la ha ai propri confini: ne parla, la finanzia, ne prende parte, ma non la soffre sul proprio territorio né vi coinvolge direttamente i propri eserciti. Nel 2024 da noi la parola – anzi, locuzione – dell’anno non è stata conflitto, ma green backlash, “contraccolpo verde”. È il nome che la stampa continentale ha dato a un insieme di fenomeni politici accomunati dall’opposizione alle misure di decarbonizzazione prese, annunciate o immaginate.

La manifestazione più evidente è stata rappresentata dal cosiddetto movimento dei trattori, le proteste della piccola imprenditoria agricola che hanno attraversato il Continente tra marzo e febbraio. Il settore agroalimentare è piegato da una crisi che non accenna a concludersi – in 15 anni, tra il 2005 e il 2020, 5,3 milioni di aziende agricole in Europa hanno chiuso i battenti. Le proteste hanno rappresentato un punto di sfogo e, come spesso accade, unito istanze diverse e talvolta contraddittorie. Ma il punto di caduta comune – dalla Germania all’Italia – è stata l’opposizione al Green Deal e alle politiche ambientali contenute nella strategia europea Farm to Fork. Non a caso, su questo punto e solo su questo punto il movimento ha ottenuto un risultato concreto: la sospensione di alcune norme relative ai pesticidi e alla messa a riposo dei campi.

Unione europea e Stati Uniti si spostano a destra

Ma il vero banco di prova del green backlash sono state le elezioni europee di giugno e, alle urne, il contraccolpo si è sentito tutto. I partiti della destra radicale sono cresciuti in seggi, conquistando i primi posti in nazioni chiave come Germania, Francia, Italia. I verdi sono crollati dal quarto al sesto posto, mentre la sinistra radicale è rimasta ferma a fondo classifica. E anche i partiti della maggioranza – popolari, socialisti, liberali – hanno rivisto al ribasso la loro ambizione climatica. Uno spostamento a destra suggellato nell’ingresso de facto di Fratelli d’Italia nella maggioranza della Commissione, con la nomina del meloniano Raffaele Fitto a vicepresidente, e l’uscita dei verdi stessi.

La sintesi della fase politica la ha offerta involontariamente la stessa presidente riconfermata Ursula von der Leyen che rispondendo a una giornalista ha spiegato che, mentre nel precedente mandato la priorità era stata la politica climatica, a questo turno i criteri chiave per la selezione della sua squadra sono stati «sicurezza e competizione». In Europa nel 2024 si è parlato diffusamente di clima solo per una settimana, quando la Spagna è stata colpita dal più sanguinoso nubifragio della storia recente: quasi 300 tra morti e dispersi nell’alluvione di Valencia a ottobre, con danni economici ancora non del tutto calcolati ma di certo stellari. Non abbastanza, comunque, per cambiare il corso delle politiche comunitarie.

Alcuni analisti hanno suggerito che il green backlash abbia passato l’oceano e sia tra le cause della vittoria di Donald Trump che, sempre a novembre, ha riconquistato la Casa Bianca. A livello globale, d’altronde, è il ritorno del tycoon repubblicano la vera notizia politica dell’anno. Trump ha promesso di abbandonare ogni politica climatica, fatto sapere più volte che dell’origine antropica del riscaldamento globale (o della sua stessa esistenza) non è affatto convinto, e che – in ogni caso – trivellerà quanto più possibile alla ricerca di gas e petrolio. «Drill baby, drill», trivella baby, trivella, è stato uno dei suoi slogan in campagna elettorale. Ma che ci sia stato o meno un contraccolpo – anche in quel caso – è da dimostrare. I democratici americani, infatti, hanno parlato poco o nulla di clima negli ultimi anni.

E quindi, il 2025?

Con queste premesse, è facile approcciare il brindisi di fine anno col magone. Ma sarebbe un errore buttarsi giù – e non solo perché lo scoramento raramente è di aiuto. Innanzitutto, esistono anche le buone notizie: raramente conquistano le prime pagine, ma non per questo sono meno rilevanti.

Nel mondo sviluppato, ad esempio, procede l’abbandono del carbone, il più inquinante e climalterante dei combustibili fossili. Il Regno Unito ha chiuso in settembre la sua ultima centrale. Un gesto che ha del simbolico: in Inghilterra era nata la rivoluzione industriale e, quindi, l’uso dell’energia fossile. Proprio il Regno Unito è uno dei posti del mondo che, con l’elezione del laburista Keir Starmer, ha deciso di investire di più sulla transizione ecologica. Dall’altro lato dell’oceano, in America Latina, l’arrivo al potere di Lula Ignacio da Silva in Brasile e Gustavo Petro in Colombia ha ridotto drasticamente il tasso di deforestazione in Amazzonia. Votare, a volte, serve.

La Cina, gigante delle emissioni o della transizione ecologica?

C’è poi la Cina, il gigante delle emissioni che, per alcuni, è anche la speranza nascosta della transizione ecologica. La rispettata testata statunitense Politico, ad esempio, ne parlava in questi termini pochi mesi fa: «Il più grande inquinatore di CO2 al mondo è sotto molti aspetti la principale ragione per essere ottimisti. Le strade di Shanghai, secondo un visitatore recente, sono silenziose con il frusciare elettromagnetico delle auto elettriche. La supremazia della Cina su veicoli puliti, batterie, catene di approvvigionamento minerarie e altre tecnologie rispettose del clima ha stimolato la corsa internazionale delle grandi potenze per costruire tali industrie. Per coloro che cercano una motivazione più concreta [per la transizione N.d.T.] di quella di assicurare il futuro dei loro nipoti, battere la Cina si sta dimostrando un motivo convincente per puntare sul verde». 

E proprio dalla Cina potrebbe arrivare la prima delle buone notizie climatiche del 2025. Secondo le stime, infatti, nel prossimo anno vi si potrebbero vendere per la prima volta più auto elettriche che tradizionali. Anche l’installazione di energia fotovoltaica è sulla strada giusta per il rispetto degli accordi internazionali, assicura l’Agenzia internazionale dell’energia, e di nuovo lo è in gran parte grazie agli sforzi di Pechino.

I segnali da tenere d’occhio nel 2025

Tornando all’America Latina, sono sempre Colombia e Brasile i governi da guardare. La prima sta tentando di rilanciare i meccanismi di cooperazione Nord-Sud con un piano di 40 miliardi per trasformare in senso ecologico la propria economia. Bogotà esporta soprattutto idrocarburi ed è il diciannovesimo produttore di petrolio al mondo. Ma ha comunque deciso di fermare le nuove licenze estrattive e investire sull’energia pulita.

Più complesso il discorso brasiliano, che migliora le sue performance per quanto riguarda la deforestazione ma continua a estrarre combustibili fossili senza segni di rallentamento. La città amazzonica di Belem ospiterà la prossima conferenza negoziale sul clima delle Nazioni Unite, la Cop30 di novembre 2025. In questa sede tutti i governi del Pianeta dovranno presentare i loro piani di decarbonizzazione aggiornati, e l’esecutivo Lula ha già fatto sapere di volerne fare un summit storico. Vedremo. Occhi aperti anche sul Messico, altro grande estrattore che ha però recentemente eletto una ex scienziata dell’Ipcc, la principale istituzione mondiale nel campo della scienza climatica.

C’è poi la pressione dal basso – che è complessa, articolata e discontinua, ma non sparisce. Nel 2024 sono andate a sentenza diverse climate litigation, processi in cui Stati o aziende sono messi alla sbarra per le loro colpe sul clima. E sono arrivate alcune sentenze favorevoli ai denuncianti, la più importante delle quali in Svizzera. L’anno prossimo molte altre andranno a giudizio. Ad aprile, intanto, è atteso un nuovo sciopero globale per il clima. Per scoprire cosa ci aspetta il futuro, non è solo ai palazzi che si deve guardare. Anche e soprattutto dalle strade arriva il cambiamento.