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Come rappresentare il mondo complesso del capitalismo al cinema?

Negli ultimi anni modi originali di mostrare le derive delle grandi banche su grande schermo hanno permesso di comprenderne meglio l’ambiente. Ora è Thomas Piketty ...

Negli ultimi anni modi originali di mostrare le derive delle grandi banche su grande schermo hanno permesso di comprenderne meglio l’ambiente. Ora è Thomas Piketty a lanciarsi in questo genere complesso.
Il progetto pare straordinario. Venerdì 13 maggio il regista Justin Pemberton è andato sulla Croisette ad annunciare l’intenzione di adattare per il cinema il Capitale nel XXI secolo. Il best-seller mondiale di Thomas Piketty – presente all’annuncio – con più di 3 milioni di copie vendute diventerebbe così un documentario.
Ma come? Come rendere intelligibile e visuale la complessità delle 1.000 pagine di quel libro?
La sfida è assicurarsi che il pubblico riesca a distinguere il cuore del problema: l’aumento drammatico delle disuguaglianze di reddito e di patrimonio, la legge fondamentale del capitalismo o ancora la vittoria del patrimonio sul lavoro.
Interrogato, Justin Pemberton – che ha realizzato documentari sul nucleare e sullo sport – ha immediatamente fatto capire che non ha intenzione di ritrascrivere alla lettera il libro di Piketty:

«Ci si potrebbe spaventare all’idea di adattare un libro del genere, ma ho deciso di non farlo. Il modo migliore di spiegarlo è immaginare di parlarne con qualcuno, come durante una serata con amici in cui diremmo “Questo libro parla di…”. Lo scopo è ricavarne chiarezza, non possiamo ritrascrivere 1.000 pagine di testo, l’audiobook dura 26 ore. Occorre riuscire a portare le idee sullo schermo».

Provare a parlare di finanza sul grande schermo è sempre un esercizio complesso, eppure gli esempi non mancano e si sono addirittura moltiplicati in questi ultimi anni, denotando un bisogno di comprendere e di rendere la finanza, che governa le società occidentali, accessibile.
Il documentario Inside Job, che ha ricevuto l’Oscar per il miglior documentario nel 2011, non denotava una costruzione particolarmente originale: una voce off, delle immagini d’archivio, degli estratti di documenti evidenziati in giallo… me niente di troppo pedagogico. Il cinema di finzione, dal canto suo, ha da tempo abbandonato ogni spiegazione di qualsiasi cosa possa annoiare lo spettatore: The wolf of Wall Street non si interessa tanto al funzionamento della finanza, quanto piuttosto agli uomini che la fanno, con il loro eccessi e la loro cupidigia.

Pensare a «della merda» quando sentiamo la parola «subprime»

Questa cambia, forse, con Margin Call. Uscito nel 2011, il film di J.C. Chandor realizza quello che il sito Pro Publica ha definito «il film più perspicace mai girato a proposito di Wall Street». Nel corso di sole 36 ore, prendiamo coscienza, grazie alla storia di qualche impiegato di una banca che assomiglia alla Lehman Brothers, che all’arrivo della prima ondata della crisi finanziaria, che è stato fatto tutto il possibile per minimizzare gli impatti finanziari sulle banche e scaricarli sui clienti.
Più recentemente, il regista Adam McKay, che conosciamo per le sue commedie leggendarie con Will Ferell (AnchormanStep Brothers) ha compiuto una virata interessante realizzando il film La grande scommessa, con Ryan Gosling, Christian Bale e Steve Carell.
Così come Justin Pemberton adatta il libro di Piketty, McKay interpretava quello del giornalista Michael Lewis, The Big Short: Inside the Doomsday Machine, che raccontava come alcuni finanzieri avevano previsto e tratto profitto dalla crisi dei subprime nel 2007 e quella delle banche nel 2008. Nel film i dialoghi sono tecnici: alcuni dei protagonisti non si infastidiscono a spiegare agli spettatori cosa significano espressioni come «asset-backed security». E non importa, perché quello che viene messo in evidenza e la cupidigia abbinata alla stupidità delle banche. D’altronde, tre sequenze brillanti, completamente disconnesse dalla trama, si prendono il tempo di spiegare le grandi nozioni finanziarie al centro del film. Per prima, Margot Robbie, che ha recitato anche ne The wolf of Wall Street, che spiega dalla sua vasca da bagno la crisi finanziaria in appena un minuto.
 

 
«Quando sentite la parola “subprime”, ditevi che “è della merda”», si lascia sfuggire posando il suo bicchiere di champagne. Poi è il turno della cantante Selena Gomez, che usa una partita a poker per mostrarci l’assurdità di questi famosi «CDO sintetici», o ancora lo chef Anthony Bourdain che si serve di pesce non troppo fresco con cui cucina una zuppa per spiegarci a sua volta le obbligazioni.
È interessante notare che in una delle precedenti commedie di McKay per l’appunto consacrata alla finanza, The other guys, i titoli di coda spiegavano, con l’ampio supporto di infografiche molto semplici e dei Rage Against The Machine, lo schema di Ponzi, una montatura finanziaria fraudolenta che ha permesso a Bernard Madoff di rubare miliardi nel 2008.
«Dès que vous entendez le mot “subprime”, dites-vous que “c’est de la merde”», lâche-t-elle en reposant son verre de champagne. Vient ensuite le tour de la chanteuse Selena Gomez, qui utilise une partie de poker pour nous montrer l’absurdité de ces fameuses«obligations synthétiques adossée à des actifs», ou encore le chef-cuisinier Anthony Bourdain se sert de ses poissons un peu trop vieux qu’il transforme en soupe pour expliquer à sont tour ces fameuses obligations.
 

 
In Money Monster di Jodie Foster, presentato a Cannes, si ritrova questa stessa volontà di rendere le frodi finanziarie accessibili e comprensibili al grande pubblico. In un thriller dagli accenti comici vediamo un presentatore televisivo incaricato di dispensare consigli di investimento (George Clooney) essere preso in ostaggio da un telespettatore che l’ha ascoltato e ha perso tutto: ha investito tutti i suoi risparmi in un’azienda che giocava con i suoi azionisti e il suo capitale.
 

©Sony Pictures Entertainement
©Sony Pictures Entertainement

Il capitalismo come Pop culture

Il documentario di Il capitale nel XXI secolo è quindi una sfida difficile da affrontare e dovrà trovare il giusto equilibrio tra volgarizzazione e precisione delle spiegazioni. Ma come ha fatto La grande scommessa, i registi puntano su quello che chiamano «il capitalismo come pop culture». Justin Pemberton, pur ricordando che il capitalismo è ovviamente molto più complesso di quello che crediamo, ci spiega che esso nutre gran parte della nostra cultura:

«Quando parliamo di pop culture possiamo pensare a Kendrick Lamar, perché parla molto di capitalismo. È sufficiente leggere i suoi testi. Ma parliamo anche di riferimenti alla letteratura attraverso film che sono stati fatti a partire da romanzi di Jane Austen per esempio. Il capitalismo è ovunque, anche in cartoni come i Flintstone o i Simpson. Sono esempi semplici da comprendere».

 
Se il documentario includerà anche delle interviste, punterà quindi, prima di tutto, su delle figure conosciute al grande pubblico per rassicurarlo e condurlo verso nozioni complesse che superano la sua comprensione. Ed è forse un’ottima cosa. Onestamente, chi rifiuterebbe che Homer Simpson ci spieghi, suo malgrado, la legge fondamentale del capitalismo secondo Piketty?
 
Tradotto dall’originale francese pubblicato su Slate.fr