Far crescere il territorio, insieme: cosa sono le cooperative di comunità
Non sono aziende tradizionali ma nemmeno non profit. Le cooperative di comunità nascono dall'incontro tra economia civile e imprese sociali
A Cerreto Alpi, nel cuore dell’Appennino reggiano, c’è una cooperativa che si occupa di servizi forestali, accudimento sociale della popolazione e di rilancio turistico del territorio. È composta da nove persone, nove soci lavoratori che hanno scelto, più di vent’anni fa, di prendersi cura del proprio territorio. Un paese che oggi conta quaranta abitanti.
I Briganti di Cerreto è una delle prime cooperative di comunità nate in Italia.
«Avevamo appena finito gli studi – racconta Erika Farina, socia fondatrice e lavoratrice – e non volevamo lasciare il paese in cui siamo nati e cresciuti. Abbiamo cercato un modo per restare e, così, è nata la cooperativa». Erika ripercorre la scelta di un gruppo di amici di farsi imprenditori del proprio territorio. «Siamo partiti nel 2003 con un capitale di 100 euro a testa: adesso abbiamo nove soci lavoratori contrattualizzati a tempo indeterminato».
Il destino di Cerreto Alpi, ricorda, sembrava segnato. Nel giro di un secolo era passato da un migliaio a poche decine di abitanti, prevalentemente over 65. Restavano solo le case vacanza di chi, dopo la transumanza verso la Maremma, ad agosto tornava nel proprio luogo d’origine. Abitare in un comune di crinale a più di 1.000 metri non è facile, ma ci si può organizzare. E, con un po’ di visione, renderlo un progetto di vita.
I Briganti di Cerreto, nell’Appennino Reggiano
Le attività di cui si occupa la cooperativa coprono ambiti molto diversi. Ci sono gli impieghi forestali come il taglio della legna o l’abbattimento di alberi ad alto fusto; ci sono i servizi di accudimento sociale destinati alla popolazione anziana, come la consegna di farmaci a domicilio, la navetta per raggiungere luoghi lontani dal paese, le attività di socialità.
C’è un progetto di turismo di comunità che raggiunge mille pernottamenti l’anno grazie all’adozione di un vecchio mulino. La struttura è di proprietà del Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano e affidata alla cooperativa. Fino alla metà del secolo scorso macinava castagne e frumento; oggi garantisce dieci posti letto che, spiega Erika, «permettono di creare un po’ di economia all’interno del paese».
Le iniziative attirano centinaia di persone. Il 5 e il 6 ottobre sono stati in 450 a partecipare al campionato mondiale del fungo, una manifestazione inventata dieci anni fa per rianimare Cerreto e che oggi attrae partecipanti da tutta Europa.
Le cooperative di comunità: un nuovo modo di fare economia
Le cooperative di comunità sono un’innovazione del modello cooperativo e, per caratteristiche e ambito di attivazione, rappresentano un modo nuovo di fare economia. Ne è convinto Massimiliano Monetti, coordinatore nazionale settore cooperative di comunità presso Confcooperative Habitat. «Sono un modo di fare impresa dove non arriva il mercato e dove lo Stato fatica a rispondere», spiega. Secondo Monetti, esprimono una visione che intreccia il modello cooperativo all’economia civile, a partire dalla necessità della società civile di farsi protagonista e imprenditrice del proprio territorio.
Un modello aperto, completamente fuori dagli schemi tradizionali, che richiede «una visione dell’economia a 360°». Monetti è convinto che somigli a un’utopia, con la differenza – sottolinea – che non solo è attuabile, ma è già attuata. È proprio nei territori periferici o ritenuti marginali che ci si imbatte nelle esperienze più innovative di human economy, sottolinea: «Se vuoi sperimentare l’innovazione, vedere dove andrà il mondo, devi partire da queste aree, dove quasi non esistono servizi ed è tutto da inventare». Che l’esperimento funziona lo dimostra il fatto che solo Confcooperative conta circa 150 realtà registrate in tutta Italia, «da Ostana a Lampedusa».
Realtà che hanno natura molto diversa, chiosa Valerio Pellirossi, direttore di Confcooperative Habitat: «Spesso pensiamo alle cooperative di comunità come uno strumento di contrasto allo spopolamento nelle aree montane. Ma c’è anche molto altro». Secondo Pellirossi, sono soggetti che usano nuove modalità per intervenire in aree fragili, dove gli strumenti imprenditoriali o sociali tradizionali non sono efficaci. Così, prosegue, «abbiamo cooperative di comunità in contesti urbani, la cui caratteristica principale è l’ingaggio della comunità territoriale per uno scambio mutualistico differenziato. Se per esempio una determinata comunità sceglie di tenere aperto il forno del proprio territorio, e lo usa anche come consumatore, è pienamente ingaggiata nel processo imprenditoriale ma sta rispondendo a un proprio bisogno comunitario».
Così, i soci delle cooperative di comunità sono gli stessi lavoratori, «persone che si attivano per il proprio territorio e, grazie a questo, riescono a trovare occupazione dove c’è desertificazione imprenditoriale ed economica». E funziona. «Briganti di Cerreto riesce a dare lavoro sicuro a nove persone in un comune di quaranta anime. Praticamente è il 25% dei residenti, altro che grande industria automobilistica!».
L’esperienza di Il Ce.Sto a Genova
Perché le cooperative di comunità, con tutta la loro carica innovativa e di sperimentazione, sono realtà spesso molto consolidate. Come Il Ce.Sto che, tra i carruggi del centro storico di Genova, da oltre trent’anni porta un modello di rigenerazione urbana basata sull’aggregazione e l’inclusione sociale.
La cooperativa è stata costituita dodici anni fa, ma il il suo gruppo di lavoro operava sul territorio già da tempo come associazione. «Abbiamo lavorato a lungo con attività di aggregazione per bambini», racconta il presidente Marco Montoli. Quando è nata l’associazione, più di cinquant’anni fa, il centro storico di Genova poteva essere ritenuto una periferia nel cuore della città. Il Ce.Sto era ed è rimasto un «refugium peccatorum, in cui trovavano cittadinanza persone provenienti dal cattolicesimo di base e dalla sinistra radicale». Anime diverse che trovano un percorso comune di cittadinanza attiva, che crede nella funzione pubblica della cultura, in quella sociale dell’aggregazione e nella necessità dell’accoglienza.
Il passaggio alla forma cooperativa è avvenuto tredici anni fa: le attività erano cresciute al punto tale che l’associazione non era più un grado di governarle. «Decidemmo di gestire uno spazio molto bello ma abbandonato al degrado ambientale e al disagio sociale vicino ai luoghi in cui operavamo, i giardini Luzzati. Contemporaneamente, intercettammo dodici persone in fuga dal Nord Africa. Avevano bisogno di un alloggio e decidemmo di lavorare a un progetto di accoglienza diffusa».
«Eravamo una cooperativa di comunità senza saperlo»
Da allora l’attività e il ruolo de Il Ce.Sto sono cresciuti, la cooperativa è tra le realtà promotrici della Carta della buona accoglienza. Il lavoro negli anni ha portato gli stessi giardini Luzzati a divenire un centro cittadino culturale d’avanguardia, dove si sono esibiti artisti di caratura nazionale e internazionale e dove si organizzano più di 320 eventi l’anno. «Non siamo nati con l’intenzione di essere una cooperativa di comunità ma, di fatto, lo eravamo senza saperlo – spiega Montoli –. La nostra politica era quella di assumere persone del territorio o comunque legate alle attività realizzate. Anche in questo momento, chi lavora ai giardini Luzzati proviene da quel percorso di accoglienza».
Quando il volume di entrate e di attività è diventato troppo elevato, hanno deciso di costituirsi come comunità. E il passaggio ha pagato: se all’inizio erano in tre, adesso tra lavoratori e collaboratori la cooperativa è costituita da 134 persone, per il 70% residenti in centro storico, con un fatturato di 8 milioni di euro e un media locale, il network Good morning Genova, che conta centinaia di migliaia di fruitori.
Il progetto è tanto radicato che l’amministrazione cittadina gli ha chiesto di estendere a tutto il centro storico l’esperienza dei giardini Luzzati. Il Ce.Sto è diventata capofila di 90 enti che lavorano per riqualificarlo dal punto di vista del lavoro di comunità. Anche per questo, ci svela il presidente, all’ultima assemblea dei soci è stato votato un ulteriore avanzamento: si è aperto un processo che porterà gradualmente gli stessi abitanti del centro nella cooperativa, così che possano partecipare alla sua governance.
Le cooperative di comunità sono imprese ad alto impatto sociale
«Le cooperative di comunità – spiega Alberto Montanari, responsabile dell’ufficio economia e sociale terzo settore di Emilbanca – nascono in luoghi in cui la società civile partecipa in maniera proattiva, si sente responsabile di mantenere vivi i luoghi in cui vive». Sono imprese ad alto impatto sociale, perché attivano la cittadinanza in progetti che hanno come desiderio quello di creare nuovi posti di lavoro.
Dal punto di vista di una banca, spiega, occorre guardare a queste realtà con sguardo molto aperto. «In determinati territori – continua – le cooperative di comunità sono un investimento sul futuro. È chiaro che bisogna che ci sia un processo di sistema e non solo bancario. In molti casi, soprattutto nei territori più piccoli, noi come banca cerchiamo di essere partner della cooperativa stessa attivando relazione e collaborazioni».
Per spiegare meglio cosa intenda, elenca: «Noi abbiamo filiali a Canossa, a Castelnuovo, a Frassinoro, a Madonna dei Fornelli. Visto che operano con un parco clienti naturalmente limitato, dal punto di vista di una banca non avrebbe senso restare in quei luoghi. Ma noi facciamo parte di quelle comunità e c’è un progetto condiviso con le persone con cui collaboriamo, che coinvolge anche gli enti locali». Esperienze di questo genere, secondo Montanari, diventano fiammelle di speranza in contesti in cui si sta spegnendo il motore dell’economia. Questo vuol dire garantire nuova occupazione soprattutto se si mantiene anche una concreta e competente attenzione ad accompagnarle.
Appenninol’Hub si occupa esattamente di questo: un laboratorio di formazione che accompagna cooperative di comunità e imprese di abitanti per i primi anni dopo la loro nascita. Una sorta di incubatore che, a bordo di un camper, porta formazione e strumenti alle diverse realtà del territorio. Anche Emilbanca ha deciso di investire nell’incubatore itinerante. «Questo incastro tra consulenza, formazione teorica e cassetta degli attrezzi rende molto più bancabili le realtà, ci semplifica il lavoro».
Fuori dal classico sistema di impresa
La natura ibrida delle cooperative di comunità, ragione della loro resilienza e della capacità di fiorire nei contesti più diversi, è anche il loro limite. «Sono completamente fuori dal classico schema di impresa – spiega Massimiliano Monetti – e questo vuol dire che tutte le leggi, i sistemi cui siamo abituati non sono adatti a quell’approccio. Tutto il sistema impresa è pensato per fare impresa performante, ma per le cooperative di comunità valgono altre regole».
Si tratta di un problema che chi anima ogni giorno una cooperativa di comunità conosce bene. Vi fa riferimento Marco Montoli quando sottolinea che un limite delle attività di Il Ce.Sto è la liquidità finanziaria. I pagamenti dagli enti istituzionali che amministrano progetti di accoglienza possono arrivare differiti anche di un anno: nel frattempo bisogna pagare gli stipendi, garantire la sostenibilità. «L’accesso al credito non può essere disciplinato come quello di un’impresa tradizionale: noi facciamo altro», commenta.
Anche secondo Erika Farina sarebbero necessari interventi istituzionali ad hoc. «Non si può considerare le attività che fai a Cerreto come quelle di un’impresa che lavora in una grande città. Servirebbero deroghe, un sistema che ci permetta di lavorare senza difficoltà burocratiche. Noi, per tutte le attività che facciamo, abbiamo almeno 15 diversi codici ATECO. Questo complica la partecipazione ai bandi e le interazioni con gli enti pubblici. Inoltre, anche a distanza di vent’anni e pur essendo una realtà solida, l’accesso al credito resta una delle difficoltà più importanti».
La scarsa percezione del lavoro sociale e culturale
Questa difficoltà materiale sembra ammiccare a un generico mancato riconoscimento del valore del lavoro culturale e sociale. Sia Erika sia Marco lo sottolineano. «I nostri comuni – spiega Farina – fanno fatica ad avere energie e risorse. Sono piccoli, composti da moltissime frazioni e pochissimi abitanti: è fisiologico. I nostri progetti sono di importanza vitale per questi territori, ma non sempre questo viene capito. A volte siamo guardati con diffidenza».
«Noi sperimentiamo una forma di welfare territoriale che deve per forza andare di pari passo con quello istituzionale», riflette Montoli. Capita invece di scontrarsi con una scarsa percezione dell’impatto positivo di queste attività. «Sembra che il lavoro sociale consiste nell’aiutare le persone più povere per pura bontà d’animo. Non si considera che processi di accoglienza inclusiva riducono la microcriminalità, o che percorsi culturali rivolti ai giovani sono strumenti di inclusione sociale», commenta.
Serve una legge quadro nazionale sulle cooperative di comunità
Secondo Montanari, le cooperative di comunità stanno determinando cambiamenti simili a quelli arrivati quando sono nate le cooperative sociali: era un concetto che non esisteva, è stato sperimentato sul campo. Le leggi sono arrivate dopo. «Il mondo del terzo settore – commenta – è diventato un ambito strategico che manda avanti gran parte del welfare del nostro paese. Le cooperative di comunità stanno percorrendo la stessa strada. Stanno sperimentando senza strumenti. Sono imprese tridimensionali: si occupano di manifatturiero, di accoglienza, di turismo, di cultura, di inclusione sociale e di mille altri ambiti. È come se stessero giocando a pallacanestro in un campo da calcio».
La risposta, per Pellirossi, è individuare strumenti normativi che definiscano un quadro d’azione. «Gli interventi istituzionali hanno evoluzioni lente rispetto agli avanzamenti della società. C’è il momento in cui si capisce che è necessario un intervento. Poi c’è quello in cui si decide cosa fare. Poi si cercano le risorse, poi si attua effettivamente l’intervento. Nel frattempo la situazione è cambiata nuovamente».
Per questo, conclude, bisognerebbe valorizzare e incentivare le iniziative che hanno a che fare con i servizi di interesse generale. In quest’ottica, spiega, Confcooperative chiede una legge quadro nazionale che regoli le attività delle cooperative di comunità. In questo momento esistono diversi strumenti normativi regionali non armonizzati. La priorità deve essere quella di trovare un quadro d’insieme che definisca principi nazionali.