Coronavirus, l’ultimo contagiato si chiama Made in Italy

Catene distributive bloccate col rischio di stop produttivi, calo della spesa turistica per 4,5 miliardi, blocco della moda: così 2019-nCoV mette in crisi l’economia italiana

Nicola Borzi
Alcuni turisti cinesi si scattano selfie sul Campidoglio, con lo sfondo dei Fori romani e del Colosseo.
Nicola Borzi
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Oltre al numero crescente di vittime e ai danni sanitari, l’epidemia di coronavirus 2019-nCoV da Wuhan nello Hubei sta diventando anche un enorme problema economico. I contraccolpi si sentiranno anche in Italia.

Il 23 marzo 2019 in occasione della visita in Italia del presidente cinese Xi Jinping, l’Italia è diventata il primo Paese del G7 a unirsi al progetto cinese Belt and Road Initiative. In quell’occasione aziende cinesi e italiane hanno firmato dieci accordi per un valore dai 5 ai 20 miliardi di euro nell’energia, acciaio e gas naturale con nuovi investimenti in Cina di Eni, Leonardo, Fincantieri e i loro fornitori e subfornitori.

La nuova via della Seta. ARANCIO: gli Stati membri della Banca Asiatica d'Investimento per le Infrastrutture. NERO: I sei corridoi Belt and Road. AZZURRO: Via della seta marittima. Di Lommes - Opera propria, CC BY-SA 4.0.
La nuova via della Seta. ARANCIO: gli Stati membri della Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture. NERO: I sei corridoi Belt and Road. AZZURRO: Via della seta marittima.
Di Lommes – Opera propria, CC BY-SA 4.0.

Gli interessi di Leonardo e Fincantieri su aerei e navi

Il gruppo Eni – presente in Cina dal 2012 – ha siglato un’intesa finanziaria con Bank of China per stringere nuove collaborazioni con i due colossi energetici del Paese, China National Offshore Oil Corporation e PetroChina.

Leonardo (l’ex Finmeccanica) lavora con il partner cinese Kangde per partecipare alla gara lanciata dall’azienda statale cinese Comac per la realizzazione di componenti per il nuovo aereo da trasporto commerciale C929, un grande jet (280 posti) con autonomia di volo fino a 12mila chilometri: se l’offerta verrà accettata, Leonardo costruirà un nuovo stabilimento in Cina, con l’obiettivo di consegnare il primo prototipo nel 2025.

Fincantieri, tra i leader mondiali della cantieristica, ha firmato nel 2017 una lettera di intenti con China State Shipbuilding Corporation (Cssc), gigante della cantieristica cinese, e il distretto di Baoshan, che ospita il più grande porto commerciale e crocieristico della Cina e rappresenta già oggi la regione più sviluppata del Paese nel settore crociere, per creare all’interno del distretto un parco della cantieristica navale.

Anche i fornitori italiani di Fincantieri potranno trovare a Baoshan nuove opportunità di crescita, dato che ad oggi non esiste in Cina la rete di fornitura necessaria per la realizzazione di grandi navi da crociera; grazie a questo progetto, la filiera italiana avrà dunque l’opportunità di entrare in un mercato in fortissima espansione e già alcuni tra loro si sono recentemente insediati con attività produttive in Cina. Il 7 novembre l’Autorità portuale dell’Adriatico orientale e China Communications Construction Company (Cccc) hanno poi stretto un accordo per creare piattaforme logistiche collegate al porto di Trieste.

2mila imprese italiane in Cina

Ma i legami tra i due Paesi sono già forti. Secondo l’ultimo report di Fondazione Italia-Cina e Cesif, in Cina e a Hong Kong ci sono quasi 2mila imprese italiane con 190mila addetti e un fatturato di 36 miliardi. Dai primi anni Duemila sono cresciute di sette volte, specie sul fronte produttivo, perché vent’anni fa due terzi delle aziende italiane in Cina avevano solo uffici commerciali.

Le presenze più significative sono quelle delle imprese della meccanica e del tessile, con l’interesse principale che converge sulle tradizionali eccellenze del Made in Italy come la moda, l’agroalimentare e la meccanica strumentale, ma anche sui servizi per l’ambiente e l’energia sostenibile, l’urbanizzazione e le smart cities, le infrastrutture, i trasporti e le tecnologie spaziali.

44 miliardi di interscambio commerciale

Tra le maggiori imprese italiane presenti in Cina c’è Fiat Chrysler Automobile che da fine 2015 produce i modelli Jeep Cherokee e Renegade. In Cina c’è Brembo, che dal 2016 controlla il produttore di freni Asimco Meilian Braking Systems e ad aprile 2019 ha inaugurato un nuovo stabilimento a Nanjing. C’è Ferrero con lo stabilimento a Hangzhou, inaugurato a fine 2015, che ha conquistato un quarto del mercato cinese dei prodotti in cioccolato. Da fine 2017 c’à Prysmian Group con uno stabilimento di Jiangsu. Dal canto loro, i cinesi in Italia controllano Pirelli (45,52%), possiedono il 2/3% di Eni, il 35% di Cdp Reti, il 2% circa di Intesa SanPaolo, UniCredit e Generali, il 40% di Ansaldo Energia e l’intera Candy.

D’altronde nel 2018, l’interscambio Italia-Cina ha toccato quota 43,9 miliardi: secondo Eurostat l’Italia è quarto fornitore tra i Paesi europei con export per 13,2 miliardi, tra cui formaggi, vino, gelati, caffé con i marchi di punta Illy e Lavazza. Quanto all’import, l’Italia ha acquistati prodotti cinesi per 30,7 miliardi.

Nei primi nove mesi del 2019 invece l’export italiano in Cina è calato a 9,4 miliardi mentre l’import è ammontato a 24,2 miliardi. Secondo i dati Eurostat, l’Italia si conferma il quarto fornitore della Cina tra i Paesi europei, con valori che risentono della flessione di un miliardo (768 milioni, -57,6%) registrato nel settore dell’automotive. L’Italia è al quarto posto anche tra i clienti europei della Cina. L’incremento delle importazioni ha avuto un impatto determinante sull’aumento sia dell’interscambio che del deficit commerciale. La crescita delle importazioni italiane (+2,3 miliardi) riguarda principalmente il settore materiali e apparecchiature elettriche (+1,2 miliardi) e, più nello specifico, l’importazione di apparecchiature telefoniche.

Moda e turismo in forte allarme

Ma a soffrire di più i colpi del virus, nell’immediato, sono moda e turismo. Secondo la Camera nazionale della moda italiana, il settore perderà l’1,8% dei ricavi nella prima metà del 2020 per l’epidemia: un terzo dei consumatori globali di prodotti del lusso italiano è cinese e molti marchi hanno chiuso i negozi in Cina.

L’Italia è seconda solo alla Francia per vendite di moda e beni di lusso in Cina, con il settore del Made in Italy che nel 2019 ha fatturato 90 miliardi. «A dicembre le prospettive per il 2020 erano di ritorno al nostro tasso di crescita storico annuo dei ricavi di circa il 3% – ha affermato il presidente della Cnmi, Carlo Capasa – ma saremo fortunati se quest’anno il settore aumentasse dell’1%». Intanto le case cinesi Angela Chen, Ricostru e Hui hanno dovuto cancellare le loro sfilate alla settimana della moda femminile di Milano di febbraio e un migliaio tra giornalisti e buyer cinesi probabilmente non si presenteranno. Solo in via Montenapoleone 48 marchi avevano creato capsule collection dedicate all’Anno del Topo per i turisti della Cina.

Secondo elaborazioni di Cst per Assoturismo Confesercenti, se e solo se i contagi si stabilizzeranno entro marzo, la stima più ottimistica fa prevedere -30% per le presenze di turisti cinesi e oltre -6% per i turisti stranieri in Italia con un incremento del 2,5% delle presenze italiane. I flussi del 2020 potrebbero segnare un calo di 1,6 milioni di cinesi e di circa 11,6 milioni di altri turisti stranieri, con una flessione complessiva a fine anno del 3,3%.

Da ogni turista cinese, in media 1167 euro di acquisti

Le regioni più colpite saranno Lazio, Toscana, Veneto e Lombardia che insieme raccolgono oltre l’80% dei pernottamenti dei cinesi. Gli incassi turistici potrebbero calare di 1,6 miliardi ma i contraccolpi si sentirebbero anche sul Made in Italy: ogni turista cinese nel 2018 aveva fatto acquisti per 1.167 euro in Italia.

Secondo uno studio dell’Istituto Demoskopika rilanciato dall’agenzia Agi, l’epidemia potrebbe tagliare la spesa turistica nel 2020 in Italia di 4,5 miliardi, il 5% circa del valore aggiunto del settore. Il calo colpirebbe per il 70% Veneto, Toscana, Lazio e Lombardia, che perderebbero circa 3,2 miliardi. La contrazione del consumo totale di beni e servizi da parte dei viaggiatori deriverebbe del calo degli arrivi, quantificati in 4,7 milioni di turisti in meno che genererebbero, a loro volta, circa 14,6 milioni di pernottamenti in meno nelle strutture alberghiere rispetto al 2018.

Indagine Demoskopika impatto coronavirus economia italiana turismo
FONTE: Indagine Demoskopika 2020.

La stima dell’Istituto Demoskopika si è concentrata solo sui Paesi che, a oggi, hanno fatto registrare casi confermati di coronavirus così come costantemente monitorati dalla Johns Hopkins University.

  • Il calo più rilevante toccherebbe agli arrivi dalla Cina: –1,3 milioni di arrivi e –2,1 milioni di presenze.
  • A seguire la Germania: -1,3 milioni di arrivi e -5,9 milioni di presenze;
  • gli Usa: -566mila arrivi e -1,5 milioni di presenze;
  • la Francia -474mila arrivi e -1,4 milioni di presenze
  • l’Inghilterra -378mila arrivi e -1,4 milioni di presenze.

Dagli Stati colpiti da coronavirus, tagli miliardari alla spesa turistica

L’analisi per Paese di provenienza segnala un taglio della spesa turistica dalla Repubblica Popolare Cinese di 2 miliardi di euro, circa la metà dell’intera contrazione stimata. Seguono Stati Uniti con meno 693 milioni di euro (15,4% del totale), Germania con meno 551 milioni (12,3%), Giappone (243 milioni, 5,4%) e Regno Unito con 223 milioni (5,5%).

Sono quattro le regioni più bersagliate. Il Veneto potrebbe perdere 971mila arrivi, oltre 3 milioni di presenze ovvero 955 milioni di euro di spesa turistica in meno. La Toscana registrerebbe 695 mila arrivi in meno, un calo di oltre 1,8 milioni di presenze e una contrazione della spesa turistica di 778 milioni; in Lombardia si avrebbe un calo di 673mila arrivi, di oltre 1,6 milioni di presenze e della spesa turistica pari a circa 685 milioni; nel Lazio un calo di poco meno di 673mila arrivi, di oltre 1,9 milioni di presenze e della spesa turistica pari a circa 765 milioni di euro.

Ma il virus causa anche altri danni. Secondo Deutsche Welle, 3.012 delle 39.242 attività commerciali di Milano sono di proprietà di residenti nati in Cina senza calcolare quelle dei cinesi di seconda generazione. Dunque oltre il 13% dei negozi al dettaglio in città sono della comunità cinese e il quartiere di Chinatown, intorno a via Sarpi, era quello che a Milano faceva segnare gli aumenti maggiori di affitti e di valori immobiliari. La psicosi del contagio colpisce l’Italia anche in altri modi.