La lezione del coronavirus: il welfare si salva investendo in gestione del rischio

L'emergenza attuale colpisce duramente soprattutto i servizi di welfare. Ma può essere un'occasione per adattarsi e ridurre l'impatto di simili "perturbazioni" nel futuro

Flaviano Zandonai
Flaviano Zandonai
Leggi più tardi

Premessa: è tutto dannatamente complicato in questa crisi del coronavirus. E la complicazione si alimenta a una fonte per ora inesauribile e cioè l’incertezza: sulle cause, sulla propagazione, sulla cura. Ma proprio per questo sarebbe il momento di concentrarci sulla gestione piuttosto che farci prendere da interpretazioni “millenariste”: i tempi che cambiano, i paradigmi che saltano, le soluzioni che non si trovano o che, al contrario, potrebbero risolvere tutto e subito.

Provare a gestire risponde a una necessità “che ti si para davanti”, come ad esempio un asilo nido che si scopre da chiudere il sabato sera per il lunedì mattina, e che proprio per questa sua brutalità diventa anche ricca di apprendimenti, a volerli cogliere. Un approccio problem solving che in situazioni “normali” non aggiungerebbe molto a quel che conosciamo e sappiamo fare, ma che invece in momenti di discontinuità diventa preziosissimo. Sì, perché molte delle attività che gestiamo hanno adottato in questi anni due grandi processi organizzativi che le hanno rese al tempo stesso più forti e più fragili.

Standardizzazione e connettività

Il primo è quello della standardizzazione che oggi si presenta sotto nuove spoglie: non è più il bene o il servizio uguale a se stesso nella sua realizzazione finale (come la famosa Fort T nera di inizio novecento), ma piuttosto nuclei di prestazioni che possono essere ricombinati per ottenere beni diversi (rimanendo sempre in ambito automobilistico: una stessa piattaforma che sforna diverse automobili).

Il secondo fattore è quello della connettività che si estende e si diversifica ad ampio raggio, non solo geografico ma soprattutto a livello di interpolazione tra diversi soggetti, per cui può succedere che anche un competitor può contribuire a realizzare una parte del prodotto. Questo assetto che definisce cosa significa oggi “industriale”, non è solo monopolio del manifatturiero ma riguarda anche i servizi e pure i servizi alla persona. Basti pensare, ad esempio, ai team di operatori che si spostano su diversi servizi mantenendo la stessa logica e le stesse modalità produttive.

Le perturbazioni che danneggiano il modello

Tutto questo però ha bisogno di due condizioni sostanziali per poter funzionare ovvero una gestione piuttosto ferrea dei processi interni e inoltre una certa stabilità del contesto sociale, ambientale, politico. Se sopraggiunge una perturbazione, soprattutto dall’esterno come quella di questi giorni, il modello tende a perdere sia la capacità connettiva che quella prestazionale.

Ed è qui che anche molti servizi di welfare tendono, proprio in questa fase, ad andare in crisi: troppa interdipendenza da gestire e poca resilienza rispetto alle scosse esterne. Che fare quindi? Lungi dall’auspicare un modello autarchico ed eccessivamente tagliato su misura perché significherebbe privare di risposte fasce importanti della popolazione, occorre, in primo luogo, migliorare la capacità di apprendimento in corso d’opera, ad esempio da quei servizi che sono meno soggetti ai meccanismi di industrializzazione sopra descritti. E il campo del sociale è ricco di attività che della discontinuità fanno il loro atto fondativo e la loro condizione operativa, come ad esempio i servizi “territoriali” che incontrano gli utenti nei loro luoghi di vita.

L'economia sociale e solidale in Italia in cifre - FONTE: rapporto 'Financial Mechanisms for Innovative Social and Solidarity Economy Ecosystems' ILO 2019
L’economia sociale e solidale in Italia in cifre – FONTE: rapporto ‘Financial Mechanisms for Innovative Social and Solidarity Economy Ecosystems’ ILO 2019

Le scelte per il futuro

In secondo luogo è necessario reinvestire quel che si sta imparando in due direzioni principali. La prima è quella di una migliore gestione del rischio (risk management) dopo una fase in cui si è lavorato solo o quali per stabilizzare l’offerta come una routine. La seconda direzione è quella della previsione strategica (strategic foresight) che non è una pianificazione “a condizioni date”, ma all’opposto una modalità di guardare al futuro in chiave sistemica e considerando che eventualità perturbanti – ad esempio legate ai cambiamenti climatici – sono nell’ordine delle cose. Uno sforzo di strategia che restituisce non solo “capacità di futuro”, ma anche significati utili a gestire questo difficile presente.


* Flaviano Zandonai, sociologo, si occupa di terzo settore e impresa sociale attraverso attività di ricerca applicata, formazione, consulenza e divulgazione editoriale. Ha lavorato per istituti di ricerca e coordinato reti tra comunità scientifica e imprenditoria sociale. Oggi è open innovation manager presso il Gruppo cooperativo Cgm.