Criptovalute, con la proof of stake diventano normali titoli finanziari?

Il caso-Kraken dimostra che la "proof of stake" necessita di regolamentazione. Ovvero dell'intervento delle autorità di vigilanza

Criptovalute © Oleksandr Shatyrov/iStockPhoto

Bitcoin ed Ethereum sono le due criptovalute più conosciute e con la maggiore capitalizzazione. Con molte differenze, anche sostanziali, tra le due. Prima tra tutte, Ethereum non è nemmeno propriamente una criptovaluta, ma una piattaforma per la creazione e lo scambio di contratti e sulla quale si possono realizzare diverse operazioni. La valuta vera e propria legata a questo sistema è Ether.

Le differenze tra Bitcoin e Ethereum

Una delle differenze più importanti tra Bitcoin e Ethereum riguarda lo stesso meccanismo di funzionamento. Nella finanza tradizionale esistono degli enti che supervisionano e controllano (come fanno le banche centrali e le autorità di regolamentazione dei mercati nella finanza tradizionale).

L’idea alla base delle cripto è proprio quella di superare questo approccio centralizzato. Sono gli stessi partecipanti al mercato delle criptovalute che contribuiscono a validare le transazioni. Ogni nuova operazione realizzata con una determinata criptovaluta viene aggiunta a una lunga “catena” (la blockchain) che viene gestita in maniera decentralizzata da tutti i partecipanti. Perché funzioni, è fondamentale che gli utilizzatori mettano a disposizione i propri computer, e per spingerli a farlo viene prevista una remunerazione.

Esistono due metodi principali per assicurarsi che gli utilizzatori dedichino parte dell’utilizzo dei loro computer a fare funzionare il sistema. Il primo, quello del Bitcoin, è chiamato proof of work. Semplificando, più tempo il tuo computer dedica al sistema, più possibilità hai di vederti accreditati dei nuovi Bitcoin. Questo è anzi l’unico modo in cui nuovi Bitcoin vengono creati.

Con un problema sostanziale: l’enorme consumo energetico. Gli utenti sono spinti a dedicare più tempo possibile al sistema per aumentare le probabilità di guadagnare. Nel mondo esistono delle “miniere di Bitcoin” con centinaia di computer che girano 24 ore su 24 esclusivamente con tale fine. Un sito specializzato segnala che in un anno il Bitcoin consuma quanto una nazione come il Cile e produce rifiuti tecnologici pari a quelli dell’Olanda. Una transazione con Bitcoin ha un impatto sul clima, in termini di emissioni di biossido di carbonio, oltre 900 volte superiore a quella della Visa.

Gli impatti climatici delle criptovalute sono insostenibili

Numeri, alla luce della gravità della crisi climatica, assolutamente insostenibili. Per questo, pochi mesi fa la piattaforma Ethereum è passata dal meccanismo del proof of work al proof of stake. In questo caso, la garanzia che si contribuisce a partecipare al sistema che fa girare la criptovaluta non dipende da quanto tempo viene dedicato ma dal detenere un certo quantitativo della stessa criptovaluta in maniera stabile (appunto lo staking). 

Se dal punto di vista del consumo energetico la situazione migliora enormemente, il problema è un altro. La piattaforma chiede agli utenti di acquistare e tenere da parte un certo numero di Ether. In cambio viene garantita una remunerazione, che attualmente è intorno al 5% annuo. Un funzionamento che ricorda da vicino quello dei “tradizionali” titoli finanziari quali azioni e obbligazioni: un investitore li compra, si assume il corrispondente rischio e in cambio si vede riconosciuto un certo rendimento.

La SEC pensa che le cripto debbano essere considerate titoli finanziari

Recentemente la SEC, l’ente che controlla i mercati finanziari statunitensi, ha iniziato a pensare che il funzionamento fosse del tutto analogo, tanto che le criptovalute quali Ether devono essere considerate dei titoli finanziari, e ricadono pertanto sotto la sua sorveglianza. A febbraio 2023 la SEC ha multato per 30 milioni di dollari Kraken, una delle più importanti piattaforme di scambio di criptovalute. L’accusa è proprio quella di avere proposto un investimento (gli Ether) che, in cambio dell’immobilizzazione di un certo capitale, prometteva un rendimento, ovvero l’equivalente di un titolo finanziario, il che avrebbe dovuto essere riportato alla SEC prima di essere realizzato. 

Un precedente che rischia di rimettere in discussione il meccanismo del proof of stake. Non solo e non tanto per i maggiori costi, ma perché l’idea stessa di sottoporsi alla regolamentazione delle autorità di vigilanza va contro l’ideale di libertà e decentralizzazione che aveva portato alla nascita delle cripto. Secondo diversi osservatori, i disastri della storia recente, a partire dal fallimento di FTX, una delle principali piattaforme di scambio di cripto al mondo, hanno reso evidente come un qualche controllo e regolamentazione siano necessari.

La partita è ancora aperta. Tra l’insostenibilità ambientale del proof of work del Bitcoin e i problemi di regolamentazione del proof of stake dell’Ethereum, il futuro del mondo delle cripto sembra ancora lontano dall’avere trovato una propria strada.