Clima e promesse non mantenute: come smascherare il greenwashing

Cresce l'interesse per gli investimenti sostenibili. E con esso il rischio di greenwashing. Gli algoritmi possono aiutarci a individuarlo

Non passa giorno senza immagini di disastri causati o aggravati dai cambiamenti climatici. Ma una notizia ci conforta: i risparmiatori e gli investitori sono sempre più attratti dalla sostenibilità. I numeri parlano chiaro. Nel 2020 le emissioni di debito sostenibile hanno toccato i 732 miliardi di dollari. Sono cresciuti i green bond e gli asset gestiti dai fondi sostenibili valgono, in tutto, 1.230 miliardi. Ma è tutto verde quello che brilla?

La domanda non è oziosa e la risposta è importante per tutti gli attori in gioco – risparmiatori, operatori finanziari, regolatori – e, ovviamente, per il Pianeta. Il rischio di greenwashing è sempre più elevato.

Pozzo di petrolio, impianto di estrazione petrolifera all'imbrunire. CC0 Public Domain da Pixabay.com
Numerose aziende attive nel settore delle fonti fossili affermano di voler rendere più verdi i propri business © Pixabay

Il greenwashing di Santos

Quando parliamo di greenwashing intendiamo un po’ di tutto in uno spettro che va da affermazioni ipocrite a vere e proprie bugie. È il caso, ad esempio, dell’azienda che opera in un settore tra i principali responsabili di emissioni di gas climalteranti che – con testo in grassetto verde – nel proprio sito sottolinea quante emissioni ha evitato in un anno. Omettendo di dire quante ne ha prodotte. O quella che a parole dichiara obiettivi ambiziosi mentre nei fatti continua con il business as usual.

Per esempio, in Australia il gigante del petrolio Santos è stato citato in giudizio da un gruppo di azionisti attivi. All’azienda vengono contestate due cose. Da un lato, le dichiarazioni rilasciate nel rapporto annuale 2020, in cui ha affermato che il gas naturale è un «combustibile pulito» che fornisce «energia pulita». Gli azionisti della Australasian Centre for Corporate Responsibility sostengono che queste affermazioni siano false. L’estrazione di gas naturale, dicono, comporta il rilascio di «quantità significative di anidride carbonica e metano nell’atmosfera».

La seconda parte delle accuse riguarda l’affermazione di Santos di avere un piano «chiaro e credibile» per azzerare le proprie emissioni nette entro il 2040. Facendo affidamento sulla cattura e lo stoccaggio della CO2 (CCS). Gli azionisti attivi sostengono che fare affidamento sulla CCS per raggiungere lo zero netto non è credibile, soprattutto se in parallelo si progetta di espandere l’estrazione di combustibili fossili.

La gestione “allegra” dei criteri ESG da parte di DWS

Per gli investitori, quindi, è sempre più difficile distinguere tra le aziende veramente impegnate nella riduzione del proprio impatto ambientale e quelle che si limitano agli annunci. E affidarsi a un gestore di asset non è necessariamente la soluzione. La storia di DWS è esemplare.

Deutsche Asset and Wealth Management, il gruppo tedesco di gestione patrimoniale controllato da Deutsche Bank, è sotto indagine da parte della Sec e della BaFin, le autorità di controllo delle società quotate in Borsa statunitense e tedesca. L’accusa è di avere gonfiato i livelli di utilizzo dei criteri ambientali o sociali di alcuni prodotti di investimento con etichetta ESG. DWS gestisce 860 miliardi di euro di asset e, secondo le accuse, quelli effettivamente rispondenti ai criteri ESG sono meno di quelli dichiarati.

L’industria europea di gestione patrimoniale ha già dovuto rimuovere l’etichetta ESG da un patrimonio stimato di 2mila miliardi di dollari tra il 2018 e il 2020, ricorda Bloomberg, poiché sono state gradualmente introdotte normative più severe. Il regolamento europeo sulla finanza sostenibile, entrato in vigore a marzo, richiede ad esempio ai gestori di documentare le dichiarazioni di sostenibilità nei loro portafogli.

L’intelligenza artificiale per smascherare il greenwashing

Quindi, che fare? Allo University College di Dublino hanno avuto un’idea: utilizzare gli algoritmi per aiutare investitori e operatori finanziari a individuare e smascherare il greenwashing. Il progetto, chiamato GreenWatch, utilizza l’intelligenza artificiale per analizzare dichiarazioni di sostenibilità su siti web e comunicazioni aziendali da parte di 700 aziende globali. Le dichiarazioni vengono poi confrontate con le emissioni effettive di CO2 per verificare se si sta procedendo a un effettivo taglio che garantisca gli obiettivi dichiarati.

La metodologia messa a punto dai ricercatori dell'University College di Dublino per individuare il greenwashing nelle dichiarazioni delle più grandi aziende globali © GreenWatch
La metodologia messa a punto dai ricercatori dell’University College di Dublino per individuare il greenwashing nelle dichiarazioni delle più grandi aziende globali © GreenWatch

GreenWatch classifica le aziende in base alla validità delle loro affermazioni sulla sostenibilità. Sono quattro le categorie in cui il progetto divide le aziende: leader verdi, campioni verdi nascosti, incrementalisti verdi e potenziali o probabili greenwasher.

I primi risultati della ricerca mostrano che nel 95% delle dichiarazioni di società di comunicazione e media c’è un’alta probabilità di greenwashing. Questa scende all’80% delle dichiarazioni delle aziende dei settori industriale, dei materiali e dei beni di consumo voluttuari. Meno della metà delle dichiarazioni delle società energetiche ha una probabilità di greenwashing. A livello geografico, sono soprattutto le aziende giapponesi quelle a rischio, con l’84% delle dichiarazioni. Al secondo posto le imprese statunitensi, con quasi il 75%.