La crisi non ferma il mercato delle armi
Crisi economica e rallentamento delle supply chain non fermano il riarmo. Il settore bellico cresce del 1,9%, toccando i 592 miliardi di dollari
La crisi economica e la carenza di materie prime non bastano a fermare il business delle armi. Anzi, nel biennio 2020-2021 le prime cento aziende del settore hanno aumentato il loro volume di affari. Lo certifica l’ultimo report del Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), centro studi indipendente finanziato dal governo svedese e specializzato in guerra e armamenti.
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La crescita, nonostante tutto
I ricercatori di Stoccoloma parlano di un aumento nelle vendite del 1,9% rispetto al periodo precedente. 592 miliardi di dollari nel 2021. La crescita è superiore rispetto a quella del periodo 2019-2020, all’epoca 1,1%. Ma ancora lontana dai livelli pre-pandemia, 3,7% nel biennio subito prima.
Il rallentamento, comunque inscritto in un contesto di crescita, è da imputare all’affaticamento delle supply chain, le lunghe catene di produzione e distribuzione che tengono in piedi il mercato globale. La pandemia prima e l’invasione russa dell’Ucraina poi hanno messo a dura prova queste arterie del commercio. Anche il settore delle armi e dei servizi militari ne ha risentito. «Avremmo potuto assistere a un aumento ancora più marcato nella vendita di armi nel 2021, se non fosse stato per i persistenti problemi della supply chain», scrive Lucie Béraud-Sudreau, direttrice del programma Military Expenditure and Arms Production di SIPRI.
Chi guadagna e dove
La crescita descritta dal report è globale, ma non omogenea. Gli Stati Uniti, ad esempio, decrescono addirittura. -0,8% per la nazione che vanta le prime 5 posizioni nella top 100 delle aziende impegnate nel settore militare. A frenare l’industria a stelle e strisce è l’inflazione, particolarmente sentita in un Paese dove le armi sono un bene di larga diffusione.
Cresce invece l’Europa, che occupa 27 posizioni nella top 100, trainata sopratutto dal settore navale. Un segmento di mercato in cui anche aziende italiane occupano spazi di rilievo. Soffre invece l’aviazione. Unica eccezione Dassault Aviation Group, forte della vendita di 25 nuovi Rafale, gli aeroplani da combattimento fiore all’occhiello della casa francese.
In aumento anche le vendite asiatiche. A guidare è la Cina, sempre più a suo agio anche tra fregate, mitra e caccia. Asia e Oceania nell’insieme contano 21 aziende nella classifica SIPRI. Otto sono cinesi. Spicca il gigante di Stato China State Shipbuilding Corporation (CSSC), ormai primo al mondo nella cantieristica navale militare. Nell’area cresce anche l’industria coreana (fresca di recenti e ricchi contratti per il riarmo polacco) e per la prima volta figura nella lista un’azienda taiwanese. Discorso a parte per il Giappone, unico big orientale a decrescere.
Notevole infine la prestazione dei produttori di armi e servizi militari mediorientali. Le 5 aziende della zona analizzate dal report crescono in media del 6,5%. La parte del mondo con l’aumento maggiore.
«Segnali di stagnazione diffusa» in Russia
Lo stato di salute del settore bellico russo è un quesito gravido di conseguenze. Uno degli scopi delle tanto discusse sanzioni occidentali è, in teoria, l’affossamento di questo comparto.
SIPRI prende in considerazione sei gruppi russi. In media crescono, ma molto meno che altrove: +0,4%. I ricercatori parlano di «segnali di una stagnazione diffusa» nell’economia di Mosca. A pesare sarebbe soprattutto la carenza di semiconduttori. L’azienda di stato Almaz-Antey Corporation, ad esempio, ha dichiarato di non riuscire a ricevere pagamenti per alcune delle consegne effettuate.
Prospettive future
Comunque vada, l’aumento della domanda di armi e servizi militari sembra una certezza nel prossimo futuro. La corsa al riarmo non appare destinata a fermarsi, nonostante le difficoltà tecniche. Secondo gli autori del report anche i rallentamenti della supply chain continueranno ad accompagnare il mercato nel medio termine.
Lo scenario di questo ultimo anno, insomma, potrebbe essere la nuova normalità del settore. Intanto, però, raccontarlo potrebbe diventare più difficile. I ricercatori scrivono che l’ingresso di società di private equity nell’industria bellica – un fenomeno evidente sopratutto negli Stati Uniti – potrebbe rendere l’intero mercato delle armi meno trasparente, per via di obblighi di rendicontazione meno rigidi rispetto a quelli richiesti alle società pubbliche.
Chi vive vendendo armi sembra avere di fronte un periodo d’oro. Più clienti e meno domande scomode.