«Lo scudo penale del Ddl Pmi legalizza lo sfruttamento nella filiera della moda»
Le organizzazioni della società civile chiedono al Parlamento di non votare il Ddl Pmi: cela uno scudo penale per il caporalato nella moda
Non è stata una passerella né un evento glamour quello che ha riportato recentemente sulle prime pagine dei giornali nomi come Armani, Loro Piana, Valentino e Tod’s. Ma l’ennesima inchiesta della Procura di Milano che ha svelato l’altra faccia del lusso italiano: fabbriche nascoste, lavoratori pagati pochi euro l’ora, turni massacranti e condizioni degradanti.
Dietro l’etichetta “Made in Italy” si nasconde un sistema di sfruttamento strutturale, dove i grandi marchi si avvalgono di fornitori e subfornitori che violano le leggi e i diritti fondamentali.
Ora, mentre la magistratura fa luce su questa catena di abusi, il Parlamento rischia di fare il passo opposto. Con il disegno di legge sulle piccole e medie Imprese (Ddl Pmi), già approvato al Senato, il governo propone una certificazione volontaria di conformità della filiera che – dietro l’apparenza di trasparenza – nasconde un pericoloso scudo penale per le aziende capofila, anche in caso di caporalato nella subfornitura.
«Questa proposta non tutela il Made in Italy, ma lo tradisce», denunciano le organizzazioni firmatarie che oggi, martedì 11 novembre 2025, lanciano un appello urgente ai deputati e alle deputate: «Non votate un testo che legalizza l’impunità dello sfruttamento».
Perché il Ddl Pmi non colpisce realmente il caporalato nella filiera della moda
Le inchieste milanesi hanno mostrato che le case madri non possono dirsi estranee agli abusi nelle proprie filiere. Eppure, invece di rafforzare le responsabilità e introdurre obblighi di due diligence vincolante, il Ddl Pmi propone una certificazione su base volontaria. L’ennesimo bollino che rischia di diventare un paravento per comportamenti irresponsabili e un ulteriore onere burocratico per i fornitori.
A maggio, Regione Lombardia ha firmato un Protocollo per la legalità nella moda, che prevede una piattaforma di filiera sviluppata dal Politecnico di Milano. Ma anche in quel caso, l’adesione resta volontaria.
«Qualsiasi misura volontaria, che non sposta l’onere di controllo e prevenzione, e i relativi costi, in capo ai committenti stessi (due diligence) è destinata ad avere impatti molto limitati», afferma Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign, network internazionale composto da oltre 220 organizzazioni che da oltre vent’anni si batte per il rispetto dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori del tessile e per un settore compatibile con i limiti del pianeta. «Finché non verrà introdotto un obbligo di trasparenza e responsabilità in capo alle imprese committenti, le stesse logiche continueranno a prosperare».
Le organizzazioni promotrici chiedono al Parlamento di eliminare lo scudo penale dal Ddl Pmi: il vero Made in Italy non nasce dallo sfruttamento, ma dal lavoro dignitoso. È tempo che la politica stia dalla parte di chi lavora, non di chi chiude gli occhi.
Elenco delle adesioni in ordine alfabetico (in aggiornamento):
- ADL Cobas
- AltraQualità
- ASGI Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione
- Centro Nuovo Modello di Sviluppo
- Campagna Abiti Puliti
- Equo Garantito – Assemblea Generale Italiana del Commercio Equo e Solidale
- FAIR
- Fashion Revolution Italia
- Filctem CGIL
- Focsiv ETS, Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana
- Fondazione Finanza Etica
- Human Rights International Corner
- Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie
- Mani Tese ETS
- Movimento Consumatori APS
- OEW (Organizzazione per Un mondo solidale OdV)
- Oxfam Italia
- Sindacato Intercategoriale COBAS
- SUDD Cobas Sindacato Unione Democrazia Dignità Cobas
- The Good Lobby Italia
- Tramaplaza
- Transparency International Italia
- UILTEC Nazionale (Unione Italiana Lavoratori Tessile Energia Chimica)




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