Se il debito pubblico deve sperare nella finanza privata

Le manovre della Bce stanno svalutando i titoli di Stato. Paesi come l'Italia rischiano di faticare a collocare i propri nel 2023

Alessandro Volpi
L'Italia, come altri Paesi, faticherà maggiormente nel prossimo anno a collocare sul mercato i propri titoli di debito © Stadtratte/iStockPhoto
Alessandro Volpi
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Negli ultimi anni, le crisi più gravi sono state affrontate con l’aumento del debito pubblico. Nel caso italiano, le più recenti leggi di Bilancio hanno fatto molto affidamento sul debito per affrontare pandemia e caro bollette. Ma ora il quadro sembra decisamente destinato a mutare. Il prossimo anno dovranno essere collocati titoli del debito pubblico in Europa per 1.200 miliardi di euro, di cui quasi 300 di nuova emissione, con un incremento del 5% rispetto all’anno precedente. E per la prima volta da anni la Bce interverrà a comprare debito in misura assai limitata, lasciando scoperti titoli per 500 miliardi, di cui quasi 70 sono italiani.

Indebitarsi diventerà più costoso per gli Stati

In sostanza, i vari Paesi europei con un maggior debito da rinnovare o da collocare potranno fare affidamento soltanto sull’impegno preso dalla presidente Christine Lagarde di utilizzare una parte delle risorse derivanti dalla scadenza dei vecchi titoli per garantire una porzione, non è chiaro quanto estesa, dei rinnovi e sull’ancora indefinibile scudo “salva spread”, di cui non sono affatto chiare le condizionalità imposte agli Stati che ne faranno richiesta.

Questo significa che saranno necessari, assai più che nel recente passato, compratori privati, naturalmente interessati ad una remunerazione maggiore che, peraltro, già nel corso di quest’anno è salita in media, per i titoli di Stato, di ben dieci volte. Dunque, in estrema sintesi, una fetta considerevole del finanziamento della spesa pubblica europea, e italiana in particolare, sarà affidato alla finanza privata. Che ne detterà i costi sociali, tradotti in oneri per gli interessi da pagare.

Una riedizione degli anni Ottanta?

In questo senso, sembra riproporsi la situazione che negli anni Ottanta ha fatto lievitare il debito italiano proprio per il costo degli interessi in assenza di una banca centrale in grado di svolgere una funzione di compratore finale. Tali interessi dovevano essere pagati dal Tesoro italiano per reggere la concorrenza di altri titoli di Stato, a cominciare da quelli americani che beneficiavano della copertura del dollaro come moneta di scambio e di riserva internazionale.

Oggi si sta riproponendo una situazione in parte simile. I tassi di interesse delle banche centrali sono saliti e i rendimenti dei titoli di Stato dei vari Paesi sono cresciuti per far fronte al loro deprezzamento, in parte dettato dall’inflazione. I Bund tedeschi hanno perso in pochi mesi il 18% del loro valore, i Btp italiani il 20% e questo ha spinto, appunto, i rendimenti al rialzo. Contribuendo a convincere la Bce a non proseguire nella strategia degli acquisti.

La concorrenza dei titoli americani

In tale ottica lo spread non cresce perché sia Italia sia Germania sono costrette ad alzare i tassi mentre pesa invece, proprio come negli anni Ottanta, la concorrenza dei titoli di Stato americani che rendono, sul decennale, ben oltre il 4% e pertanto sono molto appetibili. Ancora una volta, come allora, il Tesoro degli Stati Uniti può permettersi una simile operazione grazie alla forza del dollaro. Peraltro ad aggravare il quadro per i Paesi europei indebitati intervengono anche altri fattori.

La Bce e la Banca d’Italia detengono 685 miliardi di debito pubblico italiano, a cui vanno aggiunti i 383 miliardi nelle mani della banche italiane. Lagarde ha già annunciato non solo di non voler comprare più debito nazionale, con le conseguenze a cui si è fatto riferimento sopra, ma ha avanzato la pericolosa ipotesi di vendere quello in suo possesso, sul mercato secondario, per alleggerirsi di titoli il cui prezzo sta scendendo.

La scelta al ribasso della Bce

La presidente ha inoltre inasprito le condizioni di finanziamento delle banche che usano come garanzia gli stessi titoli del debito pubblico, rendendoli un collaterale poco allettante e quindi moltiplicando la spinta alle vendite. In altre parole, ottenere finanziamenti usando il debito pubblico come garanzia diventa molto più costoso. Peraltro, a dicembre scadrà lo strumento introdotto nel 2020, in piena pandemia, che consente alle banche di attenuare l’effetto sul loro patrimonio delle cadute di prezzo dei titoli pubblici che proprio gli alti tassi stanno provocando.

Si assiste così ad una situazione quasi paradossale. La Bce alza i tassi e dunque contribuisce a deprezzare i titoli del debito pubblico degli Stati più indebitati. Per far fronte alla svalutazione dei titoli che ha provocato, la stessa Bce comincia a vendere i titoli che ha, rendendoli ancora più privi di valore. Al tempo stesso, la medesima Bce impone alle banche di svalutare i titoli del debito pubblico che usano come garanzia per fare i prestiti all’economia, mentre la normativa europea torna ad obbligare le stesse banche a coprire le perdite dovute alla perdita di valore dei titoli del debito pubblico. E un’analoga normativa viene fatta valere per i titoli in possesso delle assicurazioni.

Le due conseguenze possibili

Tutto ciò potrebbe produrre due effetti molto pesanti. Il primo è rappresentato dalla già ricordata vendita massiccia di titoli pubblici a prezzi stracciati, operata non solo dalla Bce ma da tutti coloro che possiedono titoli considerati “svalutati”. Il secondo effetto consisterebbe nella conseguente impossibilità di collocare il nuovo debito proprio nel momento in cui stanno aumentando le emissioni; un grave rischio per un Paese come l’Italia che negli ultimi anni ha trovato nel debito la copertura di molte delle misure di emergenza di carattere sociale, a partire dal reddito di cittadinanza e dai bonus.