Dietro la crisi di Deutsche Bank l’ideologia della banca universale
Il dibattito pluriennale sulla separazione tra attività finanziarie tradizionali e quelle più rischiose non ha prodotto riforme. Difficilmente qualcosa cambierà con i nuovi vertici Ue
La crisi di Deutsche Bank e il salasso che gli amministratori hanno presentato ai dipendenti (uno su cinque perderà il lavoro entro il 2022) sono il risultato di due decenni di ubriacatura collettiva dei banchieri e dei politici, portata avanti anno dopo anno nonostante la grande crisi finanziaria del 2007-2008. Un’ebbrezza costruita su una ideologia precisa: quella della banca universale.
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Proprio il modello di banca universale, che ha affiancato all’attività tradizionale quella speculativa, ha portato quasi al collasso il gigantesco istituto tedesco che continua a perdere ogni anno centinaia di milioni a causa degli iniziali lauti guadagni (che si sono trasformati poi però in rischi sconfinati) realizzati con la negoziazione dei contratti derivati, che ha a bilancio per il valore nozionale monstre di 43.500 miliardi di euro.
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Deutsche Bank è un istituto di credito tedesco fondato 151 anni or sono. La banca, inizialmente dedita al credito al dettaglio e alla finanza per le imprese, ha preso la sua forma attuale nel 1999, quando ha acquisito la Bankers Trust di New York e diede nuovo impulso alle sue attività di investment banking. La divisione era in realtà già sorta nel 1989, quando Deutsche sotto l’allora amministratore delegato Alfred Herrhausen aveva acquistato la banca d’investimento britannica Morgan Grenfell.
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Il 1999 e l’abrogazione del Glass-Steagall Act
Nel 1999, Deutsche aveva sfruttato la revisione della politica bancaria statunitense: in quell’anno il Congresso di Washington ha abrogato il Glass-Steagall Act, una legge emanata durante la Grande Depressione per mettere al bando le banche universali che erano state tra le principali cause della crisi finanziaria del 1929.
Il Glass-Steagall Act aveva separato le operazioni bancarie tradizionali come l’assunzione di depositi e la concessione di prestiti, a rischio relativamente basso, dalle attività bancarie di investimento a rischio più elevato, come il finanziamento di acquisizioni societarie e la negoziazione di titoli.
Durante la crisi finanziaria del 2007-2008 che ha causato la grande recessione mondiale (ancora in corso in Italia per il suo “double dip” del 2012), gli enormi buchi di bilancio causati dai rischi giganteschi assunti dalle divisioni finanziarie delle principali banche universali mondiali furono coperti solo con enormi profusioni di risorse pubbliche. Salvataggi a spese dei contribuenti costati migliaia di miliardi furono varati perché erano l’unica strada percorribile che potesse garantire la sopravvivenza degli istituti.
Ma, a parte un tentativo di riforma varato dal presidente Usa Barack Obama durante il 2010, il sistema della banca universale non è stato mai seriamente messo in discussione.
L’autocritica statunitense alla banca universale
Uno dei quattro giganti sorti dall’ondata di fusioni e acquisizioni bancarie innescata dall’abrogazione del Glass-Steagall Act è Citigroup, creato dalla fusione di Citicorp con Travelers.
Sul Financial Times dell’11 novembre 2015 proprio John Reed, ex presidente e amministratore delegato di Citigroup, fece una profonda autocritica sull’esperienza della banca universale:
«Ci siamo sbagliati su alcune cose e su altre che non siamo riusciti a prevedere».
«Due errori emergono su tutti. Il primo era la convinzione che la combinazione di tutti i tipi di attività finanziaria in un solo istituto di credito avrebbe ridotto i costi – e quanto più grande fosse stata la banca, tanto più efficiente sarebbe stata la riduzione dei costi. Ora sappiamo che ci sono pochissime efficienze di costo che derivano dalla fusione di funzioni, anzi, potrebbero non essercene affatto. È possibile che combinando così tanti servizi in una singola banca l’offerta sia più costosa di quella degli operatori più piccoli e specializzati».
Due culture aziendali diverse e incompatibili
«Il secondo errore», spiegava Reed, «riguarda la cultura aziendale – e questo si rivela un problema molto serio. Mescolare culture incompatibili è un problema in sé. Rende l’intero settore finanziario più fragile. Questo è ciò che intendo quando parlo dell’esistenza di un equilibrio culturale instabile al centro del sistema bancario universale.
Com’è ormai chiaro, le attività bancarie tradizionali attraggono un tipo di talento professionale, che è completamente diverso da quelli attivi nel settore dell’investment banking e del trading.
I banchieri tradizionali tendono a essere estroversi, persone socievoli focalizzate su relazioni di lungo termine. Sono, per molti aspetti importanti, avversi al rischio.
I banchieri d’investimento e i loro trader sono più orientati al breve termine. Sono a loro agio con il rischio, che molti cercano attivamente, e sono più concentrati sulla ricompensa immediata.
Inoltre, le organizzazioni attive nell’investment banking tendono a organizzarsi e concentrarsi sui prodotti piuttosto che sui clienti. Ciò crea differenze fondamentali nei valori aziendali».
La conclusione di Reed era impietosa: «Come ho avuto modo di riflettere sul periodo che è seguito al 1999, penso che le lezioni del Glass-Steagall Act e la sua abrogazione suggeriscano che il modello di banca universale sia intrinsecamente instabile e impraticabile. Nessun progetto di ristrutturazione, cambiamento di gestione o regolamentazione potrà riuscire a cambiare questa situazione».
Un’analisi italiana ed europea su banca universale e vigilanza
Ma l’allarme di Reed non era isolato, né riguardava la sola America. Donato Masciandaro sul Sole 24 Ore del primo novembre 2014 scriveva: «È il momento giusto per chiedersi: quale modello di banca vuole l’Unione? Ed è il modello di banca che serve a una crescita regolare e convergente dell’Europa? La risposta alla prima domanda è semplice: l’Unione vuole un modello di banca che è assolutamente conforme al paradigma definito dall’ultima versione degli standard internazionali di regolamentazione, i cosiddetti accordi di Basilea 3.
Nella realtà, il modello di banca di Basilea 3 è quello basato sullo stesso paradigma su cui si sono plasmate le regole prima della grande crisi: la banca universale 2.0. Peccato che il paradigma della banca universale 2.0 sempre stabile ed efficiente sia fallito».
Un sistema finanziario sempre più opaco
«La grande crisi – continuava Masciandaro – ha mostrato che un tale modello di banca tende a generare un sistema finanziario complessivo sempre più grande, sempre più complesso, sempre più interconnesso, sempre più opaco. L’eccesso di finanza accresce i rischi di instabilità. Se si vogliono correre meno rischi di instabilità, il modello di banca universale 2.0 andrebbe corretto verso un modello di banca commerciale 2.0».
«Certo, se il modello fosse quello della banca commerciale 2.0, i risultati delle valutazioni della Bce e dei relativi stress test sarebbero diversi. Solo un esempio: con il modello di banca commerciale 2.0 i sistemi bancari con meno capitali – sotto la soglia del 5%, quindi assolutamente più a rischio – sarebbero quelli di Olanda, Francia e Germania. Invece l’Europa ha confermato il modello banca universale, e la metrica usata dalla Bce è stata conseguente. Da qui un ricalcolo del capitale, che, con la nuova metrica, ha visto tutta una serie di sistemi bancari – tra cui quello italiano – mostrare variazioni in negativo. Cambia la metrica, cambiano i risultati; ma questo non significa evidentemente ed automaticamente che i calcoli precedenti erano sbagliati, o che sono meno bravi quelli che quei calcoli hanno fatto. Sarebbe semplicemente una conclusione arbitraria».
«La verità», concludeva Masciandaro, «è che l’Unione continua a scommettere sul modello banca universale 2.0, e che quel modello è più vicino alla fisionomia delle banche tedesche, francesi ed anche spagnole, per non parlare di quelle anglosassoni, che nei fatti quel modello hanno imposto al mondo. Occorre però anche chiedersi se è questo il modello che offre le migliori garanzie in termini di stabilità e crescita per l’Europa. L’analisi economica più recente avanza forti dubbi. I politici europei sembrano averne molti di meno».
Ci sarà mai una riforma varata dalla Commissione Ue e dalla Bce?
Le domande poste da Masciandaro cinque anni fa tornano d’attualità in queste ore con la durissima ristrutturazione di Deutsche Bank. C’è però da chiedersi se una seria riforma del modello di banca universale e della supervisione bancaria saranno mai tra le proposte della nuova Commissione europea e soprattutto della nuova Bce.
Scene Outside Deutsche Bank Offices Evokes Lehman Collapse https://t.co/OpZd3bvAqb
— zerohedge (@zerohedge) July 9, 2019
La prima sarà guidata, a meno di colpi di scena, da Ursula von der Leyen, che il 6 giugno ha partecipato a DB Access, una tre giorni pubblica a Berlino con l’Ad di DB, Christian Sewing, organizzata proprio dalla divisione Corporate & Investment Bank, che ha riunito oltre 140 aziende provenienti da Germania, Austria e Svizzera in 1.700 incontri con 230 investitori internazionali di 23 Paesi.
Durante quell’incontro, rivolgendosi a Sewing di Berlino, il ministro tedesco per gli Affari economici e l’Energia Peter Altmaier ha dichiarato: «Siamo orgogliosi di Deutsche Bank. Fa parte del nostro patrimonio nazionale». La Banca centrale europea sarà invece guidata da Christine Lagarde, una delle principali vestali globali dell’ortodossia della banca universale e tra le sostenitrici della sua variante “alla francese” quand’era ministro delle Finanze di Parigi.
I nuovi vertici della Ue e della Bce saranno capaci di avere finalmente una visione eterodossa rispetto a due decenni di ideologia della banca universale? Difficile crederlo, ma obbligatorio sperarlo per evitare futuri disastri.