Dopo Panama, le Mauritius: il giornalismo d’inchiesta aiuta le casse pubbliche
La storica inchiesta dell'ICIJ ha fatto recuperare $1,28 miliardi in 23 Stati. E i Mauritius Leaks inguaiano il cantante terzomondista Bob Geldof
Il giornalismo investigativo fa bene all’economia legale. A tre anni dal lancio di Panama Papers, la più importante inchiesta giornalistica globale sui paradisi fiscali offshore – vincitrice del premio Pulitzer – sono stati recuperati 1,28 miliardi di dollari da 23 governi, sparsi tutto il mondo. Di questi, 33 milioni in Italia, con indagini giudiziarie, accertamenti e ispezioni fiscali aperti in almeno 82 Paesi. Per di più, in queste ore, il metodo collaudato dall’International Consortium of Investigative Journalists, sta svelando un altro scandalo finanziario, che ha origine, questa volta, alle isole Mauritius.
📢NEW: Come to a tiny island in the Indian Ocean for an inside peek at how Mauritius has become a thriving financial center – partly at the expense of its African neighbors. #MauritiusLeaks is our look into the offshore world. https://t.co/xuxkdvD477 https://t.co/uHgyJhvgep
— ICIJ (@ICIJorg) July 23, 2019
Paradisi solo per gli evasori
Mauritius Leaks è infatti la nuova indagine dell’ICIJ che coinvolge 54 giornalisti di 18 Stati. L’inchiesta fornisce uno sguardo all’interno dell’ex colonia francese trasformata in un fiorente centro finanziario, a spese dei vicini Paesi africani meno sviluppati. Tutto ciò, sottolinea il giornalista ICIJ Will Fitzgibbon, mentre ad esempio in Uganda, oltre il 40% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno.
L’inchiesta, esattamente come Panama Papers, parte dalle rivelazioni di un whistleblower, che all’inizio di quest’anno, ha reso accessibili almeno 200mila documenti riservati all’International Consortium of Investigative Journalists. Le informazioni arrivano dallo studio legale offshore Conyers Dill & Pearman.
📣NEW: The power of #whistleblowers. Thanks to one anonymous person we're bringing you our latest offshore investigation: #MauritiusLeaks.
Stay tuned! Signup to know the latest when @WillFitzgibbon emails our readers: https://t.co/a8leD0p4gP 🎥: @shirafu pic.twitter.com/k2aeEDJpLr
— ICIJ (@ICIJorg) July 22, 2019
Crolla il mito di Bob Geldof
I file, che risalgono ai primi anni ’90 fino al 2017, rivelano come imprese europee e americane abbiano evitato di pagare le tasse, investendo i loro fondi in alcuni dei Paesi più poveri del mondo. Tra questi, spicca il nome di Bob Geldof, artista che negli anni ‘80, era salito alle cronache per aver promosso la più grande iniziativa musicale legata alla raccolta fondi per l’Africa, LiveAid.
Il cantante, come riportano dall’ICIJ, si è rifiutato di commentare quanto emerso dall’inchiesta. La società di investimento di Geldof ha ottenuto l’approvazione del governo delle Mauritius per trarre vantaggi dagli accordi internazionali. Meccanismo che consente alle società di pagare aliquote fiscali minime nel paradiso fiscale e ancora meno alle nazioni africane povere con cui fanno affari.
BREAKING: Remember Bob Geldof's historic Live Aid concert? Secret files show that his private equity firm set up shop in the tax haven of Mauritius so it could do business in Africa without paying lots of taxes there. #MauritiusLeaks https://t.co/4DvujKWhn6 via @icijorg
— Sia At The Game (@rhpsia) July 23, 2019
Altro che «aiutiamoli a casa loro»
Le isole nell’Oceano Indiano, oltre che per le loro bellezze naturali, racconta Fitzgibbon, si presentano come punto di smistamento, «gateway», per le società finanziarie verso i Paesi in via di sviluppo. Basse aliquote fiscali e, soprattutto, un insieme di trattati, con 46 paesi africani, per lo più poveri. Gli accordi, spinti negli anni ’90, durante la corsa agli aiuti economici in Africa, si sono rivelati, in realtà, un vantaggio per le società occidentali, i loro consulenti legali, finanziari e le stesse isole Mauritius. Per la maggior parte dei paesi in via di sviluppo sono invece stati semplicemente un disastro.
Alle accuse dell’International Consortium of Investigative Journalists, risponde il ministro delle Finanze delle Mauritius, Dharmendar Sesungkur, che sovrintende al settore offshore del Paese, secondo cui le informazioni dell’ICIJ sono «obsolete». Mauritius, secondo il ministro, ha già introdotto «importanti cambiamenti politici e legislativi». Il governo dell’isola è corso però, ai ripari: il primo ministro Pravind K.Jugnauth ha annunciato regole più severe per le aziende che vorranno investire e godere dei benefici fiscali.
We dug deep and talked to experts on offshore tax havens. @MartinHearson of @ICTDTax told us how Mauritius acts as a gateway to Africa for companies. Check out how it took a team of professionals to help one US-based corporation flee taxes: https://t.co/cyPPGIcDVF #MauritiusLeaks pic.twitter.com/cKJlr5OHtC
— ICIJ (@ICIJorg) July 23, 2019
Il giornalismo investigativo fa recuperare un miliardo di dollari in tre anni
Intanto, nel giro di tre anni l’International Consortium of Investigative Journalists mette, in ogni caso, a segno un’altra grande inchiesta, la cui portata globale si misurerà nel medio periodo. Così come sta accadendo con Panama Papers che ha fatto recuperare in 23 degli Stati coinvolti nell’inchiesta, 1,28 miliardi di dollari, a luglio 2019. Cifra, peraltro, sottostimata.
Lo spiega in un preciso resoconto Amy Wilson-Chapman, engagement editor dell’International Consortium of Investigative Journalists, ricordando il lavoro del network ancora più ampio, costituito da oltre 400 giornalisti di 80 nazioni. Sono coloro che tutti insieme, il 3 aprile 2016 hanno svelato all’opinione pubblica internazionale, i dati dello studio legale Mossack Fonseka di Panama City, risalenti a ben 214 mila conti offshore.
Le rivelazioni hanno attivato indagini giudiziarie e accertamenti fiscali, tuttora in corso, in almeno 82 paesi nel mondo, come Valori aveva ricostruito già lo scorso dicembre. E che riguardano da vicino anche l’Italia, come ricorda la stessa giornalista di ICIJ. «Ad aprile, dopo aver riportato la cifra di 1,2 miliardi di dollari, i nostri partner italiani, i giornalisti de L’Espresso hanno rivelato che 33,7 milioni di dollari, (pari a circa 30 milioni di euro, ndr), sono stati recuperati dall’Agenzia delle Entrate italiana».
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Come ricostruito da Paolo Biondani e Leo Sisti su L’Espresso, infatti, proprio subito dopo la pubblicazione dell’inchiesta Panama Papers nel 2016, almeno 204 cittadini italiani avevano utilizzato la cosiddetta «voluntary disclosure», ancora in vigore all’epoca. Un’autodenuncia dei capitali nascosti all’estero, con l’obbligo di pagare tutte le tasse arretrate, premiata con uno sconto sulle sanzioni.
L’Espresso aveva reso noto i nomi di tutti coloro che avevano un conto nel paradiso fiscale panamense. Oltre i nomi di vip e politici, anche due banche: Unicredit e Ubi Banca. Indagini che si sono allargate a macchia d’olio. Secondo le fonti dell’Espresso «la Guardia di Finanza ha identificato 910 italiani che risultano beneficiari di società offshore rivelate dai Panama papers». Da qui le inchieste internazionali partite verso altre 13 nazioni a cui gli investigatori delle forze dell’ordine stanno lavorando insieme agli ispettori dell’Agenzia delle Entrate.
Nel Regno Unito, Germania, Spagna e Francia i grandi evasori
Ma, come sottolinea Wilson-Chapman, le cifre attualmente ritornate nelle casse dei vari Stati, potrebbero essere ben più alte. Spesso, sono gli stessi governi a non voler dichiarare quanto è stato recuperato. È il caso dell’Argentina. Nonostante Buenos Aires non fornisca alcuna informazione, secondo i media partner dell’ICIJ, lo Stato ha incassato 104 milioni di dollari, attraverso un condono fiscale.
Nel continente europeo, invece, da giugno 2018 ad aprile 2019, solo nel Regno Unito, sono stati recuperati dalle autorità, 252 milioni di dollari. Segue la Germania con ben 183 milioni, la Spagna con 164 e la Francia con 135 milioni. Nella piccolissima Islanda, con 24 indagini sono stati recuperati 25,5 milioni, superando, addirittura il Belgio a quota 18 milioni.
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L’Australia, grazie all’inchiesta giornalistica, ha incassato 92 milioni di dollari. Mentre l’Erario canadese ha rivelato che dovrebbe recuperare oltre 11 milioni in tasse federali e multe, provenienti da 116 ispezioni e audit. Persino a Panama le autorità hanno recuperato oltre 14 milioni di euro, negli ultimi tre anni.
Anche in Italia, l’Agenzia delle entrate, interpellata da L’Espresso, chiarisce che il dato finale è destinato a crescere nei prossimi anni. La cifra di 33 milioni di dollari (pari a 29,8 milioni di euro, ndr) infatti, raggruppa solo le procedure fiscali per cui «non sussistono vincoli istituzionali di riservatezza».