Storia e prospettive dell’economia cooperativa: come funziona e perché rappresenta un’alternativa

Far parte del mercato, coniugando la dimensione imprenditoriale a quella associativa: da oltre tre secoli è la sfida dell’economia cooperativa

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Che il sistema economico dominante depauperi il Pianeta dalle sue risorse, distribuendole in modo estremamente diseguale e creando così profonde spaccature sociali, è un dato di fatto che in pochi oserebbero negare. All’interno di questo modello, c’è un mondo che resiste. E lo fa ancorando l’attività economica al principio della mutualità. Stiamo parlando dell’economia cooperativa.

Breve storia dell’economia cooperativa

Le corporazioni che riunivano i lavoratori esistevano già nel Medioevo, così come le istituzioni che si prendevano cura delle persone in difficoltà. Ma fu con la rivoluzione industriale che emerse il bisogno di organizzazioni più strutturate, per arginare lo strapotere del capitale su una classe lavoratrice strettamente irregimentata. Nacquero così da un lato i sindacati e dall’altro le imprese create e amministrate dai lavoratori stessi, spiegano Stefano Zamagni e Vera Zamagni in La cooperazione (Il Mulino, 2008).

Le prime esperienze di economia cooperativa risalgono dunque alla seconda metà del Settecento, dapprima in Europa (in particolare in Gran Bretagna) e poi negli Stati Uniti. Ma si dovette aspettare circa un secolo per l’affermazione di quei modelli di cooperazione più strutturati che sarebbero poi imitati su larga scala. La cooperazione di consumo nacque quando 28 tessitori inglesi investirono una sterlina a testa per gestire un magazzino in cui vendere piccole quantità di beni alimentari. Tre decenni dopo, nella sola Inghilterra si contavano più di 1.600 realtà simili, con circa un milione di soci.

Alla Francia si deve il debutto della cooperazione di lavoro, alla Germania la cooperazione di credito, alla Danimarca la cooperazione agricola. Molto più recente – e italiana – la nascita della cooperazione sociale. Risale al 1963 con un’organizzazione intitolata a San Giuseppe che, la prima ad assistere non solo i suoi stessi soci ma anche la comunità. La legge 381 del 1991 introdusse nell’ordinamento le cooperative sociali, facendo da modello per gli altri Paesi europei.

Come funziona l’economia cooperativa

Zamagni descrive la cooperativa come un Giano bifronte: è un soggetto economico che accetta le logiche del mercato, ma anche un ente che persegue fini sociali e genera esternalità positive. In altre parole, ha una dimensione imprenditoriale e una dimensione associativa. Una natura duplice che la rende «difficile da spiegare e complessa da governare». Perché, se una di queste due dimensioni prevale sull’altra, l’identità stessa della cooperativa viene meno. Se dunque il liberismo concepisce solo soggetti economici intenti a perseguire i propri interessi individuali, i mercati dell’economia cooperativa sono sempre mercati ma “civili”, perché si sforzano di includere. E lo fanno non redistribuendo la ricchezza, ma permettendo agli altri – compresi i soggetti più svantaggiati – di prendere parte alla produzione della ricchezza stessa.

Nella pratica, come funziona un’impresa cooperativa? È un’organizzazione di impresa a cui chiunque può aderire volontariamente, concorrendo in modo equo (che non significa paritetico) alla costituzione del capitale. È controllata democraticamente dai soci, secondo il principio “una testa, un voto”, e deve mantenersi indipendente da qualsiasi ingerenza esterna. I soci traggono vantaggi non dalla distribuzione degli utili, ma dalla possibilità di acquistare beni o servizi oppure di trovare lavoro a condizioni più favorevoli di quelle di mercato. Nel primo caso si parla di cooperative di consumo, nel secondo di cooperative di produzione e lavoro. Parallelamente, la cooperativa si impegna per la formazione dei soci, il benessere della società e la crescita del movimento cooperativo. È il motivo per cui in Italia tali soggetti devono destinare il 3% degli utili a fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo di altre cooperative. Consapevoli del fatto che, un domani, saranno loro concorrenti.

Le cooperative in numeri

Ma che dimensioni ha questo settore? Guardando all’Italia, gli ultimi dati disponibili sono piuttosto datati, perché risalgono al 2015. All’epoca, le cooperative erano poco più di 59mila (di cui oltre 14mila cooperative sociali), generavano un valore aggiunto di 28,6 miliardi di euro e contavano un milione e mezzo di addetti. Rispetto all’economia sociale nel suo insieme, che comprende anche associazioni, fondazioni e altre organizzazioni no profit, contribuivano dunque al 60% del valore aggiunto pur essendo soltanto il 15,6% in termini numerici.

L’ultima edizione del World Cooperative Monitor riferisce invece i dati del 2021, ma solo sulle trecento cooperative più grandi del mondo. 105 sono agricole, 96 assicurative, 57 si occupano di commercio all’ingrosso e al dettaglio. Messo insieme, il loro fatturato supera i 2.400 miliardi di dollari. Il colosso bancario francese Crédit Agricole è sul primo gradino del podio (117 miliardi), seguito dalla catena di supermercati tedesca REWE (82 miliardi) e infine da un’altra banca transalpina, BPCE (64 miliardi). Un ritratto che permette di inquadrare i top player, ma restituisce solo in parte la complessità di un mondo fatto di innumerevoli realtà disseminate nel territorio.

Una nuova visione di economia cooperativa

Un mondo che non può nemmeno essere ridotto alle cooperative formalmente inquadrate come tali. È questa la tesi di Dovev Lavie, docente presso l’università Bocconi di Milano e autore di Economia cooperativa. Una soluzione alle grandi sfide della società (Bocconi University Press, 2024). L’economia cooperativa, scrive, è «un sistema di piattaforma prosociale che è prima di tutto al servizio dei valori della società ma tiene conto dei vincoli delle risorse naturali». Un sistema che tiene a bada l’avidità individuale e «serve gli interessi dei consumatori, dei fornitori e dei lavoratori, e impedisce che il potere si accumuli nelle mani del proprietario della piattaforma che gestisce il sistema».

Un modello del genere può funzionare solo se alla base c’è un solido senso di comunità, che si può costruire solo riportando l’economia su scala locale, creando connessioni dirette tra le persone per far sì che si sentano felici di dare il proprio contributo della società (e non sia solo lo Stato a imporlo dall’alto attraverso la tassazione). Proprio questo sguardo più ampio al bene della società fa sì che i consumatori accettino di acquistare solo ciò di cui hanno bisogno e i produttori di incassare profitti entro un limite ragionevole. E che, tra i criteri di scelta dei fornitori, i parametri di sostenibilità siano al primo posto. È idealismo? Per ora sì. Ma, secondo Lavie, una piattaforma digitale basata sull’intelligenza artificiale potrebbe trasformarlo in realtà. «Non esistono bacchette magiche in grado di risanare l’attuale sistema economico», scrive. «È ormai tempo di tentare di cambiare tale sistema».