Come Eni e Enel favoriscono la finanza a discapito dei cittadini

Mentre i guadagni arrivano dalle utenze, i dividendi vengono distribuiti ai grandi fondi. Per la gioia del governo Meloni

Il governo Meloni continua la svendita dello Stato © WikiCommons

Stiamo assistendo, ormai da tempo, al trionfo della finanza sull’interesse collettivo. Sarebbero molti gli esempi possibili per suffragare una simile dichiarazione, e gli ultimi mesi ne forniscono alcuni assai eclatanti. In particolare le situazioni di Eni e Enel. Cominciamo con il primo. Enel è il principale produttore e distributore di energia in Italia, copre quasi il 38% del mercato e in Italia realizza quasi il 45% del suo fatturato.

Ha quindi un peso rilevante nell’importo complessivo delle tariffe che pagano italiani e italiane. Nel 2023, in gran parte per effetto delle tariffe, ha realizzato utili per 6,3 miliardi di euro che per il 70% circa ha distribuito agli azionisti: lo Stato italiano ha solo il 23% di tale società e una quota rilevante è nelle mani di grandi fondi finanziari. In sintesi estrema, Enel, piuttosto che ridurre le tariffe agli italiani e alle italiane, ha distribuito dividendi in larga misura alla grande finanza.

Ma non basta. Nel gennaio del 2024 ha già compiuto un’operazione di buyback, ovvero di riacquisto delle proprie azioni, per 1,2 miliardi di euro. E ora ne ha annunciata un’altra per 2 miliardi. In pochi mesi altri 3,2 miliardi non saranno reinvestiti o finalizzati alla riduzione delle tariffe ma destinati ad aumentare il valore in mano ai grandi azionisti. Assistiamo, appunto, al trionfo della finanza sull’interesse collettivo: sembra davvero che la politica abbia dimenticato che i monopoli naturali devono essere pubblici.

Con Eni il governo Meloni continua la svendita dello Stato

Un secondo esempio proviene da un’altra “partecipata” di Stato. Eni, Ente nazionale idrocarburi, ha realizzato nel 2023 utili prima delle imposte per quasi 14 miliardi di euro e ha già avviato operazioni di buyback per un massimo di 3,5 miliardi. Dunque, si assiste a una produzione di valore per gli azionisti di 17,5 miliardi di euro. Se Eni fosse veramente “nazionale”, come recita la sua denominazione, alla luce di simili numeri garantirebbe un formidabile incasso alla collettività. E sicuramente potrebbe avere strategie di investimento meno “invasive”.

Ma, purtroppo, tale Ente non è più “nazionale” da anni. Fiaccato da una politica clientelare, dalla sbornia delle privatizzazioni e ora dalla finanziarizzazione. Anzi, il governo Meloni ha deciso di far scendere la partecipazione statale ben al di sotto del 30% con un’operazione assai discutibile. La cessione di una parte del capitale azionario di un titolo decisamente di segno positivo, come quello di Eni, non può essere giustificata infatti neppure con le esigenze di bilancio dello Stato.

Perché i circa 1,4 miliardi incassati saranno ben presto superati dalle perdite di futuri dividendi, destinati in parte ai grandi fondi, già presenti in Eni. E che molto probabilmente saranno “individuati” dagli advisor Goldman Sachs International, Jefferies e UBS Europe come possibili compratori. In tale prospettiva verrebbe da pensare che la cessione del 2,8% alla grande finanza serva a garantire agli stessi super fondi che l’Italia non è un paese contro cui scommettere. Proprio perché disposto a “graziosi regali”.

Così si preleva dagli utenti e si redistribuisce ai privati

Il terzo ed ultimo esempio si conclude con una domanda. Il listino della Borsa di Milano è trainato dalle multiutility, le società di gestione di servizi pubblici, dove sono presenti rilevantissime partecipazioni di soci privati. In tali società i dividendi azionari vengono garantiti in ampia parte dalle tariffe pagate dagli utenti. E la presunta “mole di investimenti” fatta da tali società grazie ai soci privati, che dovrebbero essere quindi compensati dai dividendi, in realtà esiste assai poco.

Basta un dato in tal senso: se prendiamo il valore degli investimenti e lo dividiamo per il numero degli utenti che pagano la tariffa, ci accorgiamo che in realtà gli investimenti sono pochissima cosa rispetto appunto alle tariffe pagate della vastissima quantità di utenti. Ma perché, allora, se i dividendi sono il frutto delle tariffe, non vengono interamente destinati alla collettività? Perché, in altre parole, abbiamo privatizzato e continuiamo a privatizzare e a quotare in Borsa i servizi pubblici?