Le etichette sostenibili e la carbon footprint degli alimenti

Se l’Unione Europea vuole raggiungere gli obiettivi fissati dal Green Deal deve frenare anche le emissioni provenienti dal settore alimentare

Gianluca De Feo
L’introduzione di un’etichetta sostenibile “a semaforo” rappresenta una soluzione efficace per convincere gli europei a mangiare meno carne © Prostock-Studio/iStockPhoto
Gianluca De Feo
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Secondo diverse stime, il settore alimentare produce oggi tra un quarto e un terzo delle emissioni di gas a effetto serra a livello globale. Nell’Unione europea questo dato oscilla tra il 25% di alcuni Paesi e il 42% di altri. Per ridurre le emissioni del 50% entro il 2030 e del 100% entro il 2050, come previsto dal Green Deal europeo, è dunque fondamentale intervenire in modo deciso anche sul settore alimentare.

Per contribuire a farlo, in alcuni Paesi europei sta prendendo sempre più piede l’idea di introdurre etichette “a semaforo”. Simili a quelle relative all’efficienza energetica degli elettrodomestici, segnalano con lettere e colori le emissioni generate dal prodotto alimentare su cui sono poste.

Le etichette sostenibili: un passo oltre le “etichette singole”

Già oggi su molti prodotti si trovano etichette che indicano che l’alimento è stato prodotto rispettando un determinato standard. Esempi comuni sono le etichette che indicano i prodotti biologici o provenienti dal commercio equo e solidale, ma ce ne sono moltissime altre. Questo tipo di etichette, chiamate anche “etichette singole”, aiuta il consumatore a fare una spesa più consapevole. E garantiscono al produttore il riconoscimento di determinati sforzi e il rispetto di standard produttivi. Ma hanno anche il grande limite di informare su un unico aspetto. Alcune sono poi ideate dalle stesse aziende produttrici e sono poco trasparenti sui criteri utilizzati. Spesso contengono solo termini generici come “green” o “ecologico”, alimentando così dei tentativi di greenwashing.

Un’etichetta standard che usi criteri chiari e tenga in considerazione diversi aspetti ambientali fornirebbe non solo un’informazione più completa ai consumatori, ma sarebbe anche uno strumento efficace per ridurre le emissioni del settore alimentare. Una ricerca pubblicata recentemente dall’Università di Oxford dimostra che un’etichetta di questo genere può condizionare davvero le scelte dei consumatori. Inducendoli a scegliere l’alimento meno inquinante.

Le proposte in campo

Nel quadro della strategia Farm to Fork, il “braccio alimentare” del Green Deal europeo, l’Unione europea intende armonizzare l’etichettatura dei prodotti alimentari entro la fine del 2022. Il dibattito si sta concentrando su tre proposte: il cosiddetto Nutri-Score, che attribuirebbe ai prodotti un punteggio relativo alle loro qualità nutrizionali; un’etichetta che tenga in considerazione il benessere degli animali durante il processo produttivo; e un possibile ampliamento della gamma di prodotti per cui deve essere indicato il Paese di origine. L’ipotesi più accreditata, ad oggi, sembra essere quella di inserire una valutazione dell’impatto ambientale all’interno del Nutri-Score.

Ma secondo uno studio del 2020, più della metà dei cittadini europei vorrebbe conoscere l’impatto ambientale degli alimenti che consuma in modo chiaro. E nel giugno scorso è stata lanciata un’Iniziativa dei Cittadini Europei che chiede l’introduzione di un “eco-score europeo”. L’iniziativa dovrà ora raccogliere 1 milione di firme per essere discussa, ed è nata sulla scia di progetti pilota già lanciati in alcuni Paesi. In Francia il cosiddetto “Eco-Score” è stato introdotto all’inizio del 2021 da alcune organizzazioni ambientaliste con il supporto dell’Agenzia francese per la transizione ecologica. Tra di esse Open Food Facts, che raccoglie informazioni sui prodotti alimentari in tutto il mondo. Il sistema si è recentemente espanso in Germania dopo che alcuni giganti della grande distribuzione organizzata hanno deciso di sperimentarlo. Altre grandi aziende si sono unite sotto il nome di “Foundation Earth” per lanciare proprio questo autunno un altro progetto pilota, l”Enviroscore”.

Il rischio di greenwashing

Il rischio di greenwashing, tuttavia, è sempre dietro l’angolo. Le critiche più frequenti riguardano i criteri utilizzati, che a volte non prendono in considerazione fattori legati all’utilizzo di pesticidi, alla biodiversità, all’impatto sul clima e al benessere animale. In Francia è stata recentemente lanciata una nuova iniziativa, denominata “Planet-score”. Con l’obiettivo di aggiungere questi ed altri criteri che l’Eco-Score di cui sopra non comprendeva.

È chiaro come la corsa all’etichetta sostenibile sia nel vivo della competizione. La soluzione migliore sembra essere quella di un’unica etichetta emessa dall’Unione europea, che usi criteri comprensivi ed escluda ogni tentativo di greenwashing. La strategia Farm to Fork punta a sviluppare proprio un’etichetta unica, basata sui dati, che come abbiamo visto potrebbe includere criteri ambientali oltre a quelli nutrizionali, risultando paradossalmente troppo “ampia”.

Più semplice di quello che sembra

Ma cosa succederebbe se si applicasse un’etichetta di questo genere? Quali alimenti risulterebbero più sostenibili e quali meno? La risposta è in molti casi più semplice di quello che sembra. Il grafico qui sotto mostra la quantità di gas a effetto serra emessi lungo la catena di approvvigionamento di un determinato alimento. E rende dunque un’idea di quali prodotti riceverebbero un punteggio più alto o più basso sulle etichette sostenibili. Come si può notare, gli alimenti di origine animale (carne di manzo su tutti, ma anche agnello, pecora e formaggio) sono gli alimenti che emettono la maggior quantità di gas a effetto serra.

I processi produttivi che inquinano di gran lunga di più sono quelli relativi alla coltivazione o all’allevamento e all’utilizzo del suolo. Il trasporto, spesso erroneamente additato come uno dei fattori più importanti nella valutazione dell’impatto ambientale di un alimento, provoca in realtà solo una percentuale minima di emissioni. Ad esempio, la carbon footprint di una banana importata dall’Ecuador è decisamente inferiore a quella del formaggio prodotto nella fattoria dietro casa. Fermo restando che esistono tanti validi motivi per mangiare più cibo di origine locale, per fare la differenza dal punto di vista ambientale è decisamente più importante fare attenzione al tipo di prodotto che si consuma.

La carbon footprint della nostra dieta

In media, circa l’80% delle emissioni di gas a effetto serra provocate dalle abitudini alimentari degli europei proviene da prodotti di origine animale come carne, uova e formaggio. In Lituania, Cechia e Grecia questo dato supera addirittura quota 85%, mentre nel Paese dove è più basso, la Bulgaria, si attesta comunque sul 75%.

Si discute ormai da anni sul come indurre i cittadini a virare verso una dieta più sana e meno inquinante. Le etichette a semaforo non sono certo la soluzione definitiva, ma riuscirebbero a informare efficacemente il consumatore e a indurlo a fare scelte più sostenibili. La strada per mettere d’accordo tutti sarà lunga, considerata l’opposizione di grandi gruppi di interesse. Ma si tratta di un compromesso che molti produttori, soprattutto gli allevatori, dovranno accettare se davvero si vorrà fare la differenza.


L’articolo originale è stato pubblicato su Osservatorio Balcani Caucaso.