Non è del tutto vero che l’Europa smetterà di esportare plastica nei Paesi poveri

L’Unione europea annuncia un accordo per ridurre le esportazioni dei rifiuti di plastica nei Paesi più poveri. Ma contiene parecchi buchi

L'Unione europea esporta plastica in Paesi come Malesia, Vietnam, Indonesia, Tailandia e Turchia © jacus/iStockPhoto

A una settimana dall’inizio della Cop28 a Dubai, meravigliosamente presieduta dal direttore dell’ente petrolifero degli Emirati Arabi Uniti (e qui siamo oltre il greenwashing e oramai in una performance dadaista), ecco che l’Unione europea annuncia di aver trovato un accordo per ridurre le esportazioni dei rifiuti di plastica nei Paesi più poveri. Paesi in cui è più facile aggirare tutte le regole che garantiscono un riciclo o uno smaltimento rispettoso dell’ambiente. O anche solo condizioni di lavoro dignitose. E a leggerla così, sembra proprio un’ottima notizia.

Come ha dichiarato trionfante il Commissario europeo per l’ambiente, il lituano Virginijus Sinkevičius, questo accordo tra Commissione, Parlamento e Consiglio della Ue, arrivato dopo tre anni di lunghe e travagliate battaglie parlamentari, «dimostra il nostro impegno comune ad assumerci la responsabilità delle sfide legate ai rifiuti invece di esportarli insieme ai nostri problemi all’estero. (…) Le nuove norme garantiranno che i rifiuti siano trasferiti, ma solo per essere utilizzati come risorse».

Virginijus Sinkevičius
Il Commissario europeo per l’ambiente Virginijus Sinkevičius © Commissione europea/Wikimedia Commons

È davvero «la fine del colonialismo dei rifiuti»?

L’accordo, trovato il 17 novembre e che deve solo essere ratificato, prevede il divieto di esportare rifiuti plastici non pericolosi verso Paesi non appartenenti all’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. In pratica, i 38 Stati più ricchi del Pianeta la cui economia è regolata dai principi del cosiddetto libero mercato. In pratica, si vieta di esportare in quei Paesi poveri che fino ad oggi erano stati considerati come una discarica, approfittando dei mancati controlli, con gravissimi danni per quegli stessi Paesi e per l’ecosistema in generale.

E allora sembra quasi eccezionale, la notizia. Tanto che alcune organizzazioni non governative hanno salutato l’accordo come «la fine del colonialismo dei rifiuti». E fa niente se l’accordo non prevede proprio che ci sia un divieto totale di esportazione. Ma uno stop di cinque anni. Al termine del quale, se un Paese non Ocse vuole tornare a prendersi i rifiuti plastici europei, magari non per riciclarli o smaltirli ma per buttarli a mare, può comunque farne richiesta.

In pratica, basta che questo Paese firmi una specie di autocertificazione in cui giura che non lo farà. E che, invece, li smaltirà nel migliore dei modi possibili. Dopo avere ascoltato queste promesse, un Paese dell’Unione europea potrà credergli, e mandargli un sacco di plastica. E nonostante fino a oggi l’Unione europea mandasse questi rifiuti in Paesi che non li riciclavano o smaltivano correttamente, tra cinque anni tutto sarà cambiato, e non lo farà più. Perché è bello credere che non succederà, la fiducia tra Paesi è molto importante.

L’Unione europea ha esportato oltre un milione di tonnellate di rifiuti di plastica

A voler guardare bene le cose, si legge che lo scorso anno l’Unione europea ha esportato oltre un milione di tonnellate di rifiuti di plastica. E oltre la metà di questi è andata in Stati come Malesia, Vietnam, Indonesia e Tailandia (non Ocse, ovviamente) che li buttavano davvero in mare il giorno dopo. Ma forse tra cinque anni non lo faranno più. E poi, a guardarle ancora meglio, si scopre che poco meno di mezzo milione di tonnellate di rifiuti di plastica, un terzo del totale, sono andate in Turchia. E la Turchia fa parte dell’Ocse.

Quindi un terzo dei rifiuti di plastica prodotti dall’Unione Europea continuerà ad andare in Turchia, senza nemmeno bisogno di autocertificazioni. Ma secondo Human Rights Watch all’interno delle fabbriche turche adibite al riciclaggio dei rifiuti ci sarebbero significative violazioni dei diritti umani: dallo sfruttamento del lavoro di minori e migranti fino alle condizioni di lavoro pericolose e non tutelate. Oltre ovviamente a processi di smaltimento che non sono affatto rispettosi dell’ambiente. E quindi forse, a leggerla così, nonostante tutti i proclami, la notizia dell’accordo non sembra proprio così eccezionale.