Questo articolo è stato pubblicato oltre 5 anni fa e potrebbe contenere dati o informazioni relative a fonti/reference dell'epoca, che nel corso degli anni potrebbero essere state riviste/corrette/aggiornate.

Evasione fiscale, la demagogia del governo non aiuterà a vincerla

Le prime scelte dell'esecutivo Conte solleticano gli appetiti degli elettori ma non serviranno. L'evasione è un male diffusissimo fra gli italiani, lavoratori dipendenti a parte

Alessandro Santoro
Alessandro Santoro
Leggi più tardi

Quando si parla del contrasto dell’evasione fiscale è bene partire dai numeri. Quelli più accreditati sull’Italia ci dicono che ogni anno sono evasi 110 miliardi di euro di imposte e contributi evasi, pari a circa il 24% delle imposte teoricamente dovute. Questi 110 miliardi si suddividono così:

  • 36,2 miliardi di euro sono relativi all’Iva,
  • 31,7 all’Irpef dovuto da lavoratori autonomi e imprese non societarie,
  • 11,3 miliardi ai contributi dovuti da datori e lavoratori sul lavoro dipendente,
  • 10,4 miliardi all’Ires dovuta da società di capitali,
  • 5 miliardi circa all’Irpef dovuta da lavoratori dipendenti
  • altri 5 miliardi all’Imu.
Il gap delle entrate tributarie. Dati in milioni di euro. FONTE: Rapporto antievasione allegato a Documento Economia e Finanza 2017

Ma quali grandi imprese…

Analizzando questi numeri si vede quanto è implausibile che l’evasione stimata sia addebitabile alle “grandi imprese” come piace pensare alla politica, e, in fondo, un po’ a noi tutti. Per capirlo, basta considerare che tra tutte le cifre citate in precedenza quelle riferibili alle grandi imprese sono una parte minoritaria dell’evasione dell’Ires (il 99% delle società di capitali sono di piccola dimensione), dei contributi dovuti ai datori di lavoro e dell’Imu.

Certo, esistono forme di evasione/elusione perpetrate dalle grandi imprese che sfuggono a questi conti. Ma, considerando la struttura dell’economia italiana, è davvero improbabile che siano in grado di rovesciare un fatto difficilmente controvertibile: l’evasione italiana va soprattutto a vantaggio di lavoratori autonomi, piccole imprese e consumatori finali.

Un sussidio sociale improprio

Si capisce quindi quanto sia ingannevole la prospettiva di contrastare l’evasione ma non quella “di sopravvivenza”. Un altro refrain molto diffuso nella politica (ahimé, anche a sinistra). Molta parte dell’evasione potrebbe essere considerata, guardando a chi se ne avvantaggia, di sopravvivenza o quasi.

La scomoda verità che si trae da questi numeri è semplice. L’evasione in Italia è una forma occulta, ma diffusissima e distorsiva, di sussidio sociale, che spesso mantiene in vita attività economiche che sul mercato, da sole, non potrebbero sopravvivere e/o consente di mantenere livelli di consumi superiori a quelli che il proprio reddito consentirebbe.

Propensione al gap nell’imposta. FONTE: Rapporto antievasione allegato a Documento Economia e Finanza 2017

Stati Uniti, modello da non seguire

Un altro falso mito è quello degli Stati Uniti dove “l’evasione non esiste perché gli evasori vanno in carcere e tutte le spese si possono detrarre”. Ebbene, negli USA si evade il 18,3% delle imposte sul reddito. Se si aggiungesse a questa cifra l’evasione della retail sales tax, che negli Usa sostituisce la nostra IVA, si arriverebbe ad un ammontare molto vicino a quello stimato per l’Italia (il 24% citato in precedenza).

In ogni caso, sebbene sia vero che le sanzioni penali sono più pesanti, non è affatto vero che le spese si possono detrarre dal reddito in modo da realizzare l’altro mito che va sotto il nome di “contrasto di interessi”. La ragione per cui, in tutti i Paesi del mondo, la detrazione delle spese dal reddito è adottata solo in modo parziale e solo per alcune imposte è semplicissima e dimostrabile algebricamente: essa non elimina gli incentivi ad evadere a meno che non sia concessa in misura integrale, ma in questo caso l’evasione sparisce perché sparisce il gettito…

Gli errori del “contratto del governo”

Duole constatare che il “contratto di governo” cada in questi falsi miti, richiamando appunto il “carcere duro per i grandi evasori” e il “contrasto di interessi” come soluzioni del problema, e che nel decreto-dignità annunciato sia prevista l’abolizione dello split paymentÈ uno strumento anti-evasione fiscale in base al quale un ente pubblico, nel pagare una fattura a un fornitore privato, trattiene l'IVA e la versa direttamente all'Erario.Approfondisci. Quest’ultimo strumento, di nuovo numeri alla mano, ha infatti ridotto in misura consistente l’evasione dell’Iva. Certo, lo split payment ha colpito anche contribuenti onesti, creando loro difficoltà di liquidità, ma questo fa emergere un’altra scomoda verità. Ovvero che i provvedimenti normativi anti-evasione, anche quando sono efficaci, in un Paese dove l’evasione è diffusa ma (per fortuna) non unanime colpiscono spesso sia i contribuenti evasori sia gli onesti.

Tre proposte per una via più efficace

Esiste un’alternativa? Certamente. Consiste nell’intercettazione a monte dell’evasione attraverso un’azione di dissuasione preventiva, tarata sul singolo individuo. Un sistema in grado di distinguere quindi il contribuente che probabilmente evade dai contribuenti onesti, risparmiando gli enormi costi – pubblici e privati – del gioco delle guardie e ladri tipico della visione esclusivamente repressiva. È ciò che i politici tendono a liquidare con lo slogan “incrocio delle banche dati” ma che in realtà è molto più di questo. E la cui attuazione richiede una precisa volontà politica per fare tre cose. Tutte poco popolari.

Primo. Riformare la legge sulla privacy che oggi impedisce spesso all’amministrazione finanziaria l’utilizzo dei dati in suo possesso per profilare il grado di rischio del contribuente.

Secondo.Dotare l’amministrazione finanziaria delle competenze e dei mezzi necessari per utilizzare su vasta scala le banche dati (meno giuristi, più statistici ed informatici) e cambiare gli obiettivi dati all’Agenzia delle entrate e la valutazione degli stessi passando dalla logica repressiva a quella preventiva.

Terzo. Aumentare l’applicazione di ritenute d’acconto e introdurre sistemi di pagamento tracciabili sia nelle transazioni business-to-business sia in quelle business-to-consumer.

* Professore associato di Scienza delle finanze all’università Milano-Bicocca, membro del comitato di gestione dell’Agenzia delle Entrate, è stato consigliere economico della Presidenza del Consiglio dei ministri ed esperto tributario al Secit (Ministero delle Finanze).

Twitter: @saintbull70