Ex-Ilva: giustizia in primo grado per il popolo di Taranto

Per il disastro ambientale provocato dall'acciaieria ex Ilva di Taranto, condanne per 280 anni di reclusione e la confisca degli impianti

Monumento ai marinai, tra i due mari di Taranto © IlyalisseI/iStockPhoto

Oltre 280 anni di reclusione e la confisca degli impianti dell’area a caldo della più grande acciaieria d’Europa, l’ex Ilva di Taranto, per il disastro ambientale provocato fino al 2012 dallo stabilimento siderurgico. È questo l’esito della sentenza di primo grado emessa dalla Corte di Assise di Taranto per il processo “Ambiente Svenduto”, che arriva a cinque anni dalla prima udienza. Colpevole del disastro, secondo i giudici tarantini, la gestione del gruppo industriale Riva e il fitto sistema di clientele e connivenze politiche ad esso legata. 

Il 26 luglio 2012 il primo sequestro dell’area a caldo

Sono passati nove anni dal sequestro senza facoltà d’uso degli impianti dell’ex-Ilva, voluto il 26 luglio 2012 dal Gip Patrizia Todisco. Impianti che, invece, ricorrendo alla Corte Costituzionale e a tredici decreti “Salva Ilva”, lo Stato italiano non ha mai fermato. Neppure dopo la sentenza di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo del 24 gennaio 2019 che aveva riconosciuto il doppio ricorso di 181 cittadini tarantini, guidati da Daniela Spera e Lina Ambrogi Melle. Affermando che «il persistente inquinamento causato dalle emissioni dell’Ilva ha messo in pericolo la salute dell’intera popolazione che vive nell’area a rischio». 

Vista dal Mar Piccolo di Taranto sullo stabilimento ex- Ilva, ora Acciaierie d’Italia © KonstantinMaslak / iStockPhoto

26 condanne per oltre 280 anni di pena

Tra le 26 condanne che riguardano persone e tre società (l’Ilva in amministrazione straordinaria, l’ex Riva Fire e la Riva Forni Elettrici), due tra le pene più alte sono state inflitte a Fabio e Nicola Riva. Gli ex proprietari e amministratori dell’Ilva sono stati condannati rispettivamente a 22 e 20 anni di reclusione. Entrambi rispondono di concorso in associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, fino all’avvelenamento di sostanze alimentari. Con loro condannati a 21 anni e 6 mesi di carcere l’ex responsabile delle relazione istituzionali dell’Ilva Girolamo Archinà. A 21 anni l’ex direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso.

Tre anni e mezzo di reclusione sono stati inflitti, invece, a Nichi Vendola, che ha già annunciato il proprio ricorso. L’ex presidente di Regione Puglia è stato accusato di concussione per aver cercato di “ammorbidire” in quegli anni le posizioni di Arpa Puglia, allora guidata da Giorgio Assennato, rispetto alle emissioni nocive prodotte dall’Ilva.

Le emissioni dell’ex Ilva hanno causato l’inquinamento, malattia e morte

Emissioni di diossina, pcb e metalli pesanti prodotte dal siderurgico che nei decenni hanno causato una grave contaminazione dei terreni e acque e sono entrate nel ciclo alimentare. Fino a provocare l’avvelenamento di migliaia di capi di bestiame e la distruzione di tonnellate di militi del primo seno del Mar Piccolo di Taranto. Un inquinamento persistente che non solo ha colpito le principali matrici ambientali e gli animali ma è tra le cause di malattie oncologiche precoci tra bambini e adulti. Nel 2019 lo Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento (Sentieri) effettuato dall’Istituto Superiore di Sanità lo aveva ribadito. In realtà, già i precedenti rapporti Sentieri del 2012 e del 2014 descrivevano «un quadro sanitario compromesso per i residenti nel SIN (Sito di interesse nazionale, ndr) di Taranto e, tra questi, in particolare per i bambini».

«Anche per questo è una sentenza storica per Taranto. Perché ha toccato questioni mai affrontate prima. Il piano delle responsabilità politiche. La questione epidemiologica e il nesso tra le emissioni inquinanti del siderurgico e gli effetti sulla salute della popolazione tarantina e sull’ambiente. E soprattutto ribadisce la confisca dell’area a caldo dell’acciaieria». Così commenta a Valori il professor Alessandro Marescotti, presidente dell’associazione Peacelink, teste d’accusa nel processo. L’inchiesta della magistratura, infatti, partì proprio dalle analisi sul pecorino prodotto con il latte contaminato dalla diossina nelle campagne intorno allo stabilimento. Campioni e analisi consegnate da PeaceLink in Procura a Taranto nel 2008.   

«Una sentenza così pesante conferma la solidità, da noi sempre evidenziata, delle perizie epidemiologica e chimica disposte dal gip Todisco». Sono le parole di Stefano Ciafani, presidente di Legambiente anch’essa costituitasi parte civile. «Possiamo dire che eco-giustizia è fatta e che mai più si deve barattare la vita delle persone con il profitto ottenuto nel totale disprezzo delle leggi».

902 le costituzioni di parte civile, tra cui ex-operai e agricoltori

Sono ben 902 le costituzioni di parte civile al processo tra cittadini, privati, sindacati, associazioni e organizzazioni politiche ambientaliste. Dai singoli ex-operai dell’Ilva come Pietro Mottolese, che porta il segno indelebile dell’asbestosi ai polmoni. Malattia causata da oltre 30 anni di lavoro tra amianto e fumi tossici. Agli allevatori e agli agricoltori delle masserie intorno allo stabilimento come Vincenzo Fornaro. Oggi consigliere comunale di opposizione e imprenditore votato alla sostenibilità ambientale. Ma che nel 2008 si vide abbattere dall’Asl di Taranto oltre 500 capi di bestiame, perché avvelenati dalla diossina. 

«Questa sentenza restituisce dignità alla nostra battaglia di giustizia, dopo che ogni nostra richiesta di verità era stata svilita. Siamo stati chiamati allarmisti per aver osato criticare un’eccellenza industriale italiana. Eccellenza che però ci ha avvelenato», dichiara Fornaro a Valori. «Ci è stato detto che le analisi chimiche sui nostri terreni inquinati da diossina fossero inventate. Tutto ciò oggi si è ribaltato in tribunale. L’impianto accusatorio dei pubblici ministeri ha retto perfettamente al primo grado di giudizio».

Cingolani sull’Ilva: «La sentenza ha proporzioni colossali»

Tra le costituzioni di parte civile non sono mancate quelle degli enti locali, come il Comune e la Provincia di Taranto. Così come Regione Puglia insieme ai ministeri della Salute e dell’Ambiente. Anche se, come ha dichiarato al Fatto Quotidiano il neo-ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, una sentenza così «ha proporzioni colossali» e richiederà un «aggiornamento del dato epidemiologico». Il governo centrale, finora, non ha mai preso in considerazione la chiusura dell’impianto, semmai una sua trasformazione.

Basti pensare che, solo lo scorso aprile, lo Stato italiano ha costituito attraverso Invitalia, in accordo con la società Am InvestCo Italy, proprietà del gruppo anglo-indiano Arcelor Mittal già in procinto di recedere dal contratto di affitto, le nuove Acciaierie d’Italia. Un investimento da ben 400 milioni di euro per una partecipazione al capitale sociale pari al 38% con diritto di voto pari al 50%.    

«Si è inquinato senza che nessuna istituzione facesse qualcosa»

Eppure, come sottolinea Angelo Bonelli, coordinatore della Federazione nazionale dei Verdi, «a Taranto, per decenni, si è inquinato senza che nessuna istituzione facesse qualcosa. Hanno chiuso gli occhi e legato le mani per non firmare atti a tutela della salute. La magistratura, purtroppo, è dovuta intervenire per fare quello che la politica avrebbe dovuto fare». 

Una scomoda verità che purtroppo è ancora valida. Come ricostruito dalla stessa Peacelink e anche dalle inchieste di Valori, se le vicende oggetto della sentenza riguardano i fatti accaduti fino al 2012, le condizioni di lavoro degli operai dell’Ilva non sono mai migliorate. E le emissioni del siderurgico non sono mai diminuite, continuando a ricadere sui quartieri limitrofi allo stabilimento e sulla popolazione. Nonostante le rassicurazioni date dai vari governi che si sono succeduti in questi dieci anni, la cosiddetta “ambientalizzazione” non è mai avvenuta. E neppure le enormi coperture dei parchi minerari hanno salvato la città dalle polveri velenose. 

Il ricorso al Tar del sindaco di Taranto per chiedere il fermo degli impianti

Una situazione insostenibile, tanto che lo scorso febbraio il Tar di Lecce con una sentenza storica ha disposto anch’esso, come da ordinanza del 2020 dell’attuale sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, il fermo degli impianti dell’area a caldo perché malfunzionanti e pericolosi. Decisione passata al Consiglio di Stato per la richiesta di sospensiva di Arcelormittal, di cui si attende ancora il pronunciamento. Anche a fronte di questo tergiversare delle istituzioni, lo scorso 13 maggio, i cittadini e i genitori tarantini si erano recati a Roma, in presidio sia davanti alla stessa Consiglio di Stato, che davanti al Parlamento, poi ricevuti in delegazione dal presidente della Camera Roberto Fico.

«La chiusura degli impianti a caldo deve essere un atto dovuto anche per Taranto. Specie dopo la chiusura delle aree a caldo delle acciaierie di Genova e di Trieste», ribadisce Alessandro Marescotti. «Alla luce di questa sentenza andremo avanti fino in fondo nella nostra richiesta. Occorrerà portare, ancora una volta, davanti alla magistratura i dati di monitoraggio ambientale e sanitario che sono emersi, grazie alle sollecitazioni della cittadinanza scientifica, a partire dal 2013. Dati che non sono di competenza di questo processo, ma che sicuramente serviranno per aprire nuove indagini e nuovi procedimenti giudiziari».

I report e i dati epidemiologici che attestano il danno sanitario esistono già

Dati che comprendono anche il report di Valutazione di Danno Sanitario dello stabilimento Ilva, che dalle dichiarazioni fatte alla stampa, il ministro Cingolani sembra non conoscere. Nel documento pubblicato sul sito dell’ex-ministero dell’Ambiente già nel 2017, si dichiara «un’associazione positiva e statisticamente significativa per la mortalità per cause cardiovascolari, cardiache e respiratorie nel quartiere Tamburi di Taranto, a distanza di 2-3 giorni dai Wind Days». I wind days sono le giornate di vento da nord ovest in cui la città respira le polveri velenose provenienti dai parchi minerari del polo siderurgico con cui, anche durante la pandemia, la città ha dovuto convivere.  

Ora si resta in attesa del Consiglio di Stato

«Le valutazioni di danno sanitario e ambientale sono importantissime perché indicano che anche ad una produzione tra i 4,7 milioni e i 6 milioni di tonnellate di acciaio annuali, il rischio sanitario corso dalla popolazione è inaccettabile», conclude Marescotti.

«Se dovessero continuare a produrre in queste condizioni, chiederemo ancora una volta che le istituzioni ne rispondano. Davanti alla legge e alla Corte europea dei diritti dell’uomo». Intanto, la confisca degli impianti confermata dalla Corte di Assise di Taranto, sarà operativa ed efficace solo a valle del giudizio definitivo della Corte di Cassazione. Si resta in attesa, quindi, del pronunciamento del Consiglio di Stato per capire il futuro dell’acciaieria e della città di Taranto.