Il fallimento di Northvolt rischia di diventare quello della transizione europea
Azienda svedese produttrice di batterie elettriche, Northvolt è la cartina di tornasole per analizzare gli impegni climatici europei
È in un piccolo paesino nella Svezia settentrionale, a poca distanza dal circolo polare artico, che si sgretola il sogno dell’auto elettrica europea. Qui, a Skelleftea, si trova infatti l’unica fabbrica di Northvolt, azienda produttrice di batterie agli ioni di litio per veicoli elettrici. Una startup che da quando è nata nel 2015, per volere di due ex dirigenti di Tesla, ha raccolto oltre 15 miliardi di dollari in finanziamenti, da privati o da governi. E che pochi giorni fa, trovandosi con quasi 6 miliardi di dollari debiti e con solo 30 milioni di dollari in cassa per la gestione corrente, ha dichiarato bancarotta.
O meglio ha fatto ricorso al Chapter 11 del diritto fallimentare statunitense, che è più simile a un’amministrazione controllata che a una vera e propria bancarotta. In quanto permette all’azienda di restare operativa, concordando con il tribunale il piano di risanamento. «In Europa ci sono troppe esitazioni sulla velocità della transizione da parte delle case automobilistiche, dei politici e degli investitori. E questo è un grosso problema. Tra vent’anni ce ne pentiremo amaramente se smettiamo di guardare al futuro e se smettiamo di osare nel voler guidare la transizione», ha detto Peter Carlsson. Uno dei due fondatori e attuale amministratore delegato dimissionario.
Northvolt nasce come simbolo degli investimenti pubblici e privati sul green
Perché al di là degli errori gestionali di Northvolt – dalle spese eccessive agli scarsi standard di sicurezza, fino all’eccessiva dipendenza dai macchinari cinesi, come hanno raccontato diversi dipendenti al Financial Times – su questa piccola fabbrica si è giocato e si gioca il futuro della transizione europea. Northvolt è stata infatti per un decennio il simbolo degli sforzi economici del Vecchio Continente per proteggere la sua industria automobilistica, che impiega nel suo insieme quasi 14 milioni di persone.
Per questo, i suoi principali finanziatori in questi dieci anni sono stati Volkswagen, Bmw, Scania e Porsche. Ma anche Goldman Sachs. E la stessa Unione europea che, attraverso il Fondo europeo per gli investimenti strategici che fa capo alla Banca europea per gli investimenti (Bei), ha investito poco più di 300 milioni di euro. Ma l’azienda svedese non è riuscita ad aumentare la produzione abbastanza rapidamente nella sua fabbrica di Skelleftea, ha accumulato ritardi su ritardi. Nonostante investimenti ricevuti per quasi un miliardo di euro non ha ancora aperto la sua seconda fabbrica in Germania. E per sopravvivere si è affidata ai macchinari cinesi, nemesi suprema.
E rischia di finire come simbolo del fallimento della transizione europea
Un altro dei problemi, infatti, è che Northvolt è diventata suo malgrado un simbolo nella presunta guerra commerciale con la Cina. Con l’Europa che pensava, attraverso una piccola fabbrica svedese, di poter competere nella tecnologia dei veicoli elettrici con i colossi cinesi come Catl e Byd. E ovviamente ha perso la guerra prima ancora di cominciarla. Adesso sulle sue ceneri danzano felici i negazionisti climatici. I parlamentari di estrema destra e di estremo centro, usciti vittoriosi dalle recenti elezioni europee, stanno infatti mettendo sempre più in discussione l’agenda verde del continente. Adducendo tra le preoccupazioni la burocrazia, la perdita di posti di lavoro e la chiusure degli stabilimenti.
E più in generale attaccando in continuazione le alte spese della transizione a fronte alla feroce concorrenza globale. Così adesso il fallimento di Northvolt diventa per loro il simbolo degli inutili costi della linea verde. Come ha spiegato infatti Mohammed Chahim, parlamentare europeo socialdemocratico olandese: «Se Northvolt fosse stata una banca saremmo intervenuti, come Europa o perlomeno come singoli governi. Ma siccome si tratta “solamente” di una tecnologia chiave per il futuro del pianeta, ci sono state esitazioni e distinguo. Invece dobbiamo cominciare a dimostrare, a noi stessi e agli investitori, che in Europa prendiamo sul serio queste tecnologie».