Fare gol non serve a niente: il pallone nella rete della finanza

Estratto del nuovo libro di Luca Pisapia, un viaggio con il pallone dalla rivoluzione industriale al tardo capitalismo finanziario

Fare gol non serve a niente © Jean Jacques Balzac/Add Editore

Fare gol non serve a niente, ultimo libro di Luca Pisapia di cui proponiamo un estratto per gentile concessione dell’autore e della casa editrice, è un vagabondaggio nella storia economica del calcio. Comincia nella fornace di un complesso siderurgico sulle rive del Tamigi nel XIX secolo e si conclude ai giorni nostri, tra grafici che pulsano sugli schermi di un computer in un grattacielo che ha preso il posto del vecchio cantiere marittimo. Un percorso che insegue il pallone, lo scruta e lo indaga nelle sue molteplici trasformazioni, da sacca sferica costruita con una vescica di maiale all’epoca della rivoluzione industriale a prodotto finanziario che si muove sotto forma di immagine nei flussi della globalizzazione neoliberale, e infine lo raggiunge e lo scaglia come una molotov verso il cielo. Nel mezzo c’è la storia del calcio letta attraverso le lenti della società, dell’economia e della politica, perché gli interessi in gioco sono molto diversi dal segnare un gol o vincere un campionato. Il pallone, oramai e da sempre, è un sofisticato prodotto del capitale.


Il calore della fiamma piega l’acciaio. La fuliggine copre nasi e orecchie arrossati dall’alcool, volti deturpati da cicatrici, braccia segnate dalla fatica. L’odore pungente del fuoco entra nei polmoni e ferma il respiro. I muscoli del corpo tesi allo spasmo, i volti dilaniati in oscene smorfie di fatica. Fuori, un freddo cane. La pioggia incessante trafigge il buio di una delle tante sporche mattine londinesi di fine Ottocento. L’alba tarda a sorgere sulla città, e sul complesso industriale siderurgico del Millwall Iron Works, Isle of Dogs. La stessa penisola sul Tamigi dove oggi riverberano luminose le vetrate dei grattacieli che puntellano il complesso finanziario di Canary Wharf. È un giorno imprecisato della metà del XIX secolo. Gli operai sono al lavoro per la costruzione dello scafo della SS Great Eastern, la nave che diventerà il più grande piroscafo dell’epoca. È una gigantesca macchina a vapore destinata a solcare gli oceani e conquistare il mondo. Emblema della fatica e della sofferenza operaia per la gloria della maledetta seconda rivoluzione industriale.

È un giorno imprecisato di un’epoca passata. Mancano solo pochi anni al 26 ottobre 1863 quando, nella Freemasons’ Tavern di Great Queen Street, Holborn, a pochi chilometri di distanza camminando verso ovest dalle fucine fumanti lungo le sponde del Tamigi, succede qualcosa che cambierà la storia. È il giorno in cui prende vita la Football Association, il giorno in cui si decreta la nascita del calcio, che in pochi anni diventerà il prodotto della rivoluzione industriale più diffuso a livello globale. Se la macchina a vapore è stata rimpiazzata, dal motore a scoppio prima e da quelli termici poi, il calcio no. È ancora tra noi, eterno e uguale ad allora. Minime variazioni sul tema non ne hanno scalfito l’anima: quella di merce che conquista i cuori e le menti di miliardi di persone in tutto il pianeta. Il calcio come gioco ha origini antichissime. Una traiettoria ondulata e sinusoidale lo fa apparire e scomparire in diverse civiltà e in diverse epoche, in vari gradi del suo sviluppo.

Il calcio come prodotto industriale ha però una data di nascita e, forse, anche una data di scadenza. Modi di produzione rinnovati sollecitano il brulicare di nuove idee e di nuove forme di aggregazione sociale. Lo sviluppo tecnologico e scientifico che si diffonde dall’Europa a partire dalla fine del XVIII secolo, grazie alla rete logistica intessuta sulle rotte del colonialismo marittimo, produce altre e diverse forme di vita collettiva. Illuminismo e positivismo sono più funzionali al progresso di società complesse, basate su repentini sbalzi di crescita economica e demografica. La democrazia parlamentare è la foglia di fico più adatta a perpetrare, con sembianti diversi, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

L’industria e il commercio diventano le armi con cui esercitare la libera competizione, nuovo nome dell’antica gara messa in scena per placare l’arcaica sete di dominio delle classi dominanti. La violenza compressa nello sfruttamento della produzione capitalista deve essere circoscritta e indirizzata, per evitare che esploda incontrollata nelle rivendicazioni proletarie: la nuova classe sociale che non possiede nulla se non la vita e la forza lavoro, entrambe appaltate al padrone. Nell’Ottocento si svuotano le campagne e si riempiono le città. Intorno alle fabbriche proliferano le baracche, accolgono i migranti rurali e offrono a stento riparo alla manodopera necessaria al dominio industriale. Fame, miseria, malattie, prostituzione coatta e lavoro minorile sono calmierati dalla lenta concessione di diritti su salario, orario di lavoro, suffragio elettorale, dalla costruzione di sistemi fognari, scuole e ospedali. Il conflitto tra capitale e lavoro è brace che arde e freme nelle pieghe dei luoghi di produzione industriale. La violenza operaia, il peggior timore del padrone, deve essere espunta dalla società e a dare l’esempio deve essere la borghesia. La nuova classe dominante. E così accade nei giochi, altrimenti detti sport.

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E tutto è pronto quando, nel 1863, alla Freemasons’ Tavern di Londra scocca la scintilla definitiva: nasce il calcio, il primo gioco in cui la violenza in campo è del tutto bandita. O meglio, è espulsa dal rettangolo di gioco. Ma siccome il processo di accumulazione dell’epoca che ha dato origine al calcio si fonda sul conflitto tra capitale e lavoro, questa violenza non può sparire del tutto, e la nemesi originaria del pallone è che questa immensa forza d’urto nel giro di pochi anni ritornerà a manifestarsi più brutale di prima. Non in campo, ma sugli spalti. La rivoluzione industriale ha prodotto una merce incredibilmente adatta ai tempi e al tipo di organizzazione sociale che vuole riprodurre nei nuovi agglomerati urbani industriali. Ma non solo in quelli del Regno.

Siamo in piena epoca vittoriana, al culmine della seconda fase della globalizzazione occidentale dopo la pionieristica favola nera delle Compagnie delle Indie. Una merce ha successo quando è commerciabile anche fuori dai confini della madrepatria. Le sue regole e la sua disciplina per adesso ricalcano quelle della società nascente, non hanno ancora una funzione di controllo sociale. Affinché alla merce in generale, e ai prodotti dell’industria culturale in particolare, si possano riconoscere queste capacità, dovranno passare ancora diversi anni. Per adesso il calcio è una merce che deve rispondere solo alle più elementari regole del sistema economico vigente, deve essere esportabile. Il pallone viene allora imbarcato sulla SS Great Eastern, quella che allora era il più grande battello a vapore dell’epoca: 211 metri di lunghezza, 24 metri di larghezza, una stazza superiore alle 20mila tonnellate. E su tutte le altre navi che solcano gli oceani nel periodo dell’esplosione del commercio marittimo. Una volta imbarcato, il suo viaggio può cominciare.


Luca Pisapia sarà a FestiValori venerdì 18 ottobre per presentare il libro “Fare gol non serve a niente”.