I colossi della finanza mettono le mani anche sui videogiochi
Finanza e videogiochi non sono mai stati così vicini: investimenti miliardari ridisegnano l’identità dell’industria del gaming
Nella memoria dei finanzieri non si era mai visto nulla di simile. All’inizio di ottobre, il gruppo Electronic Arts (EA), produttore di videogiochi molto popolari come Battlefield, The Sims o EA Sports FC (ex-FIFA), è stato oggetto di un’acquisizione senza precedenti del valore di 55 miliardi di dollari.
Dietro questa operazione non figurano Xbox o Netflix, ma attori relativamente lontani dal settore: il fondo sovrano saudita PIF, la società d’investimento Affinity Partners (di proprietà di Jared Kushner, genero di Donald Trump) e il fondo californiano Silver Lake. I tre soggetti sono stati affiancati dalla banca statunitense JP Morgan, che ha messo sul tavolo 20 miliardi per finanziare l’operazione.
La finanza si prende tutto, anche i videogiochi
Questa acquisizione non colpisce solo per il suo ammontare. Mentre gli esperti del settore prevedevano un acquisto da parte di un colosso dell’intrattenimento come Amazon o Disney, sono stati invece attori puramente finanziari a mettere le mani su un campione ben noto ai gamer. Un segnale di come il videogioco venga sempre meno considerato soltanto come un prodotto creativo o culturale, e sempre più come una piattaforma industriale capace di generare rendite di lungo periodo attraverso servizi live, contenuti aggiuntivi, microtransazioni, abbonamenti e comunità di utenti fidelizzati.
L’acquisizione di EA non è un caso isolato. A maggio, il fondo CVC ha rilevato la turca Dream Games per 5 miliardi di dollari. Nel 2024 lo stesso fondo ha acquisito la britannica Jagex. Sempre nel 2024, EQT ha comprato l’irlandese Keywords Studios per 2,2 miliardi. Gli investitori guardano con interesse alle società videoludiche innanzitutto perché il mercato è enorme.
Perché i videogames sono la prima industria culturale al mondo
Secondo le stime del centro studi Newzoo, punto di riferimento nel settore, nel 2025 il mercato dei videogiochi raggiunge i 188 miliardi di dollari. Più della musica e del cinema messi insieme. Potrebbe addirittura superare i 200 miliardi entro il 2028. Nel 2025 si contano 3,6 miliardi di giocatori, quasi un essere umano su due.
Il videogioco è ormai la prima industria culturale al mondo. Se la cerimonia degli Oscar riunisce 20 milioni di telespettatori, i Game Awards – la grande kermesse internazionale del settore – ne attirano 154 milioni. Segno dei tempi: la serie The Last of Us di HBO, adattamento dell’omonimo videogioco ambientato in un’America post-apocalittica, ha ottenuto otto nomination agli ultimi Emmy Awards, l’equivalente televisivo degli Oscar.
«Il videogioco è oggi uno dei pochi linguaggi culturali nativi del digitale in grado di generare vere e proprie mitologie contemporanee», osserva Fabio Viola, curatore dell’area videogames di Lucca Comics & Games, game designer e curatore di mostre sul linguaggio del videogioco. «Sempre più spesso le franchise nascono come videogiochi per poi diventare serie tv, libri, giocattoli o parchi tematici. Governare la parte gaming significa presidiare l’origine di sistemi transmediali sempre più ampi». Casi come The Sims, The Witcher, Fallout, Pokémon o Super Mario Bros mostrano come il videogioco sia diventato il perno di ecosistemi culturali ed economici che vanno ben oltre lo schermo.
Per la finanza, la formula vincente dei videogiochi sta nei ricavi a lungo termine
L’interesse degli investitori per il settore non si spiega però solo con le dimensioni del mercato. Deriva anche dalla prevedibilità dei ricavi che esso offre, una caratteristica rara nell’ambito culturale. «I videogiochi AAA, quelli con i budget più elevati come Call of Duty o Assassin’s Creed, raggiungono quasi sempre livelli di redditività importanti. Sono piuttosto le franchise meno note a fare flop», osserva Corentin Marty, analista finanziario di TP ICAP specializzato nei videogiochi, in un articolo apparso sulla testata francese Alternatives économiques.
Come nel cinema o nella musica, tutto si gioca sul contenuto del catalogo. «Prendiamo World of Warcraft: in vent’anni, la franchise ha generato 12,8 miliardi di dollari di ricavi e profitti che si avvicinano agli 8 miliardi, a fronte di un investimento iniziale relativamente modesto», scrive Laurent Michaud, economista del settore videoludico, sempre su Alternatives économiques. Un rapporto costi/benefici praticamente introvabile altrove.
Back catalogue e abbonamenti riducono i rischi e garantiscono entrate stabili
Quando analizzano i rapporti annuali degli editori, gli investitori osservano con attenzione il cosiddetto back catalogue, ossia i titoli usciti negli anni precedenti che continuano a generare ricavi. «I campioni del settore prolungano la durata di vita delle loro franchise, e il fatturato che ne deriva serve a finanziare le uscite dell’anno», ha spiegato Marty. Per i fondi, ciò significa ridurre il rischio e aumentare la visibilità sul ritorno economico.
A rafforzare questa stabilità contribuiscono formule di abbonamento sempre più diffuse. Sul modello di Spotify per la musica o Netflix per i film, consentono di accedere a numerosi giochi con un prezzo mensile unico. Secondo un rapporto del Boston Consulting Group, rappresentano già un quarto dei ricavi di giochi e servizi su console e permettono di generare entrate ricorrenti oltre alle vendite iniziali. A ciò si aggiungono le microtransazioni: skin, armi virtuali, vite supplementari. «Il pubblico dei giocatori genera valore non solo economico ma anche produttivo», continua Viola, «attraverso la creazione di asset digitali che arricchiscono ed espandono l’ecosistema, come avviene in Fortnite, Roblox o Minecraft».
Quali sono gli attori dell’industria dei videogames
L’industria dei videogiochi si articola in tre grandi categorie di attori: studi ed editori, produttori di console e distributori. Nintendo, Microsoft e Sony sono presenti in tutti e tre i segmenti. La digitalizzazione ha trasformato profondamente la filiera, spostando il valore verso le piattaforme online e riducendo il ruolo della distribuzione fisica.
Se i distributori digitali beneficiano di ricavi relativamente stabili, gli editori restano esposti all’incertezza del successo dei singoli titoli. In questa “industria di prototipi”, come nel cinema o nella musica, un fallimento può avere conseguenze pesanti. Nel 2023 la tedesca Daedalic Entertainment ha chiuso il proprio studio interno dopo il flop di Gollum.
Videogiochi in crisi di identità
I budget, intanto, continuano a crescere. Il sesto capitolo di GTA avrebbe superato il miliardo di dollari di costi di produzione, mentre migliaia di piccoli studi faticano a emergere su piattaforme come Steam. In questo contesto, avverte Viola, il rischio della finanziarizzazione non è automatico ma reale. «Quando la logica finanziaria domina nel breve periodo, il pericolo è una standardizzazione dell’offerta: meno sperimentazione, meno rischio creativo, più sequel e meccaniche pensate per massimizzare la monetizzazione», spiega.
Esiste però anche un’altra possibile traiettoria. «Se il capitale viene usato per dare stabilità ai team, sostenere lo sviluppo nel lungo periodo e accettare un margine di errore», conclude, «può diventare un abilitatore di qualità». In gioco non c’è solo il futuro economico del settore, ma la sua identità culturale: se il videogioco resterà un linguaggio capace di innovare e sorprendere o se diventerà semplicemente un altro segmento dell’economia dell’attenzione.




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