La solitudine dell’artista in un mercato musicale ridisegnato dai grandi colossi

Nel panorama musicale contemporaneo, la concentrazione del mercato riduce la libertà degli artisti e impoverisce la diversità culturale

L'immagine è stata realizzata dalla redazione di Valori.it utilizzando Midjourney

La finanza si è presa anche la musica. Cataloghi, diritti e streaming sono diventati asset da cui ricavare profitti, e pochi grandi colossi dominano ormai il mercato. Con il risultato di una produzione musicale sempre più standardizzata, che lascia poco spazio alla sperimentazione e alle esperienze indipendenti.

Ma se la musica diventa solo un investimento, che ne è del suo valore culturale e collettivo? È la domanda da cui parte questo dossier, che analizza dati, voci e prospettive di chi la musica continua a farla, studiarla e viverla.

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Nel panorama musicale contemporaneo, le dinamiche di concentrazione stanno riproducendo le stesse logiche dei fondi di investimento. All’interno del modello imposto dai grandi conglomerati, l’artista non è più un interlocutore creativo ma una voce di bilancio: un asset da valorizzare, gestito secondo criteri di rendimento e rischio. Questa logica finanziaria penetra anche nel modo in cui si negoziano i rapporti con i musicisti, trasformando la collaborazione artistica in una gestione patrimoniale. Emblematica, in tal senso, è la diffusione dei cosiddetti “contratti a 360 gradi”: formule che assorbono l’intera economia di un artista – non solo tournée e dischi, ma anche merchandising, sponsorizzazioni e diritti editoriali – rendendolo parte integrante di un portafoglio da ottimizzare, più che di un progetto culturale da far crescere.

Gli artisti come risorsa finanziaria nelle mani delle grandi corporation musicali

«Con questi contratti l’artista perde gran parte della propria autonomia», osserva Alberto Guidetti, in arte Bebo, componente de Lo Stato Sociale e autore di saggi e romanzi. «Chi riceve un anticipo importante diventa, di fatto, una risorsa finanziaria nelle mani della corporation. Finché l’investimento non viene ammortizzato, le scelte strategiche restano in capo all’azienda».

Ne risulta un sistema in cui le tournée non rispondono più a una logica artistica, ma alla massimizzazione del rendimento. «Il musicista diventa il contenuto di punta che attrae il pubblico nell’ecosistema chiuso del gruppo industriale – aggiunge Guidetti –. È la logica del rischio calcolato: un concerto può andare male, ma una maglietta si venderà comunque e un singolo fortunato continuerà a generare profitti nel tempo».

Il mercato musicale è ormai un oligopolio

L’esempio più evidente è quello statunitense, dove la fusione tra Live Nation e Ticketmaster, nel 2010, ha dato vita a un colosso integrato capace di controllare l’intera filiera: dall’artista alle venue, fino al biglietto venduto ai fan. Un circuito chiuso, in cui ogni anello alimenta l’altro e lo spazio per musicisti indipendenti, promoter alternativi e pubblico si riduce quasi a zero. In Italia il modello resta più frammentato, ma segue la stessa logica: da un lato l’asse Live Nation–Ticketmaster, dall’altro il gruppo tedesco CTS Eventim, proprietario di TicketOne e Vivo Concerti. «La differenza è che da noi l’artista deve ancora comporre il proprio percorso come un mosaico – tra management, discografia e booking – mentre negli Stati Uniti tutto è già concentrato in un unico centro di comando», fa notare Bebo.

Insomma, in una prospettiva siffatta, l’investimento non riguarda più un progetto o un tour, ma la persona stessa dell’artista, trattata come un portafoglio di ricavi diversificati. E, nella piramide di questo sistema, solo poche superstar conservano potere contrattuale, mentre la maggioranza dei musicisti finisce per essere ridotta a semplice fornitore di contenuti. Ma se l’artista rappresenta il contenuto, gli spazi dei concerti ne sono il contenitore. E chi controlla il contenitore controlla anche le regole del gioco: stabilisce tempi, modalità e condizioni di accesso al pubblico.

L’odissea dei concerti, tra venue bloccate e prezzi dei biglietti alle stelle

In questo equilibrio di poteri, il controllo delle venue diventa una leva per limitare la concorrenza. «Un promoter indipendente che prova a organizzare un tour si scontra spesso con arene già bloccate o legate da contratti esclusivi di lunga durata», osserva Bebo. «Le grandi società operano ormai come veri monopolisti: possono riservare con largo anticipo strutture di ogni dimensione, dai grandi impianti come il Forum di Assago o l’Auditorium Parco della Musica, fino a spazi medi come l’Alcatraz di Milano. Dispongono di capitali e di potere contrattuale tali da saturare il calendario degli eventi, costringendo i piccoli operatori a rincorrere le briciole».

Infine, ci sono i fan. Perché il prezzo del biglietto è solo l’inizio: una volta dentro, ci si muove in un’economia chiusa dove ogni spesa – parcheggio, cibo, bevande, merchandising – finisce nelle casse dello stesso gestore. I costi non riflettono valori reali ma l’assenza di alternative: una volta entrato, non puoi scegliere. «Il concerto smette di essere un tempio dell’espressione artistica e diventa un casello, o peggio, un centro commerciale a cielo aperto», spiega l’artista, «dove l’accesso alla musica serve solo a estrarre valore a ogni passo».

Le strategie di Ticketmaster e Ticketone per controllare il mercato dei concerti

E il controllo si estende anche all’accesso stesso. Qui entrano in gioco Ticketmaster e Ticketone, divenuti sinonimo di “biglietto”. «Il loro dominio non è solo economico ma culturale». Il potere di queste piattaforme si manifesta su due fronti: da un lato le commissioni aggiuntive – le cosiddette junk fees – che possono far lievitare il prezzo finale fino al 40 per cento, dall’altro la gestione dei dati. Ogni click, ricerca o acquisto alimenta un’enorme banca dati che consente di profilare il pubblico e spingere i prezzi sempre più in alto grazie ai sistemi di dynamic pricing (non ancora del tutto attivo in Italia), basati non su un valore equo ma sul massimo che il singolo fan è disposto a pagare.

«Questa mole di dati permette a Live Nation di prevedere tendenze, puntare sugli artisti più redditizi e persino trasformare il bagarinaggio in un affare legale», aggiunge Guidetti. Infatti, le piattaforme di rivendita “verificata” impongono infatti una seconda commissione sullo stesso biglietto, chiudendo il cerchio. Così il biglietto, da semplice titolo d’ingresso, diventa un passaporto digitale che apre le porte del concerto ma restituisce ogni traccia del consumatore al centro di comando.

Che fine fanno la diversità culturale e l’autonomia degli artisti?

Le conseguenze della finanziarizzazione della musica sono profonde e sistemiche. La prima riguarda la diversità culturale. «Un ecosistema musicale sano si nutre di sperimentazione, di club indipendenti e di scene locali capaci di far crescere i talenti di domani», spiega il tastierista de Lo Stato Sociale. «Il sistema attuale, invece, funziona come una monocoltura agricola: coltiva solo i blockbuster e scarta tutto ciò che non è immediatamente redditizio».

La seconda erosione colpisce l’autonomia degli artisti, costretti a piegarsi alle logiche delle piattaforme e delle grandi corporation. «Il vantaggio di un Paese poco imprenditoriale come l’Italia ci rende in parte più resilienti», osserva Guidetti. «Da noi sopravvive un sistema “a puzzle”, dove qualcuno riesce ancora a guardare all’artista come persona, non solo come prodotto». Ma la direzione appare tracciata: come accadde con i supermercati arrivati in Europa nel dopoguerra, anche il modello integrato della musica live rischia di imporsi, seppur in versione “italianizzata”.

Il rischio più grave è la riduzione della varietà culturale. Quando un solo brand controlla produzione, distribuzione e organizzazione degli eventi, la concorrenza scompare, comprese le sfide tra le major discografiche. Senza competizione, il risultato è una vera e propria monocultura musicale: un linguaggio uniforme imposto dall’alto, in cui le differenze si appiattiscono. «È come in Ubik di Philip K. Dick: alla fine, tutto porta lo stesso marchio», osserva Guidetti.

Come la musica può tornare a essere un’esperienza culturale condivisa

Anche i fan pagano un prezzo alto. «Nei grandi eventi i prezzi hanno raggiunto livelli insostenibili». È legittimo definirli ingiusti, soprattutto senza un adeguamento dei salari, anche se qui c’è una contraddizione. «Nessuno obbliga a pagare 100 euro per un concerto», continua Guidetti. «Eppure molti lo fanno, anche dopo esperienze deludenti. Una logica non dettata più solo dalla musica, ma anche dal consumo».

Di fronte a questo scenario, chiedere “biglietti più equi” non basta. «Il problema non è il prezzo, ma l’architettura stessa del potere che regge l’industria dei live», afferma Guidetti. Serve una riforma strutturale: separare la promozione degli eventi dalla gestione delle venue e dal ticketing, spezzare i monopoli e restituire alla musica uno spazio aperto, pluralista e sostenibile. Solo così il concerto potrà tornare a essere ciò che dovrebbe: un’esperienza culturale condivisa, non una macchina di estrazione di valore.

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