La «bomba climatica» del gas naturale liquefatto americano alimentata dalle banche

Le banche (anche italiane) alimentano il boom del gas naturale liquefatto importato dagli Stati Uniti. Ma per il clima è peggio del carbone

Andrea Di Turi
Un terminal per il gas naturale liquefatto (GNL) © Σ64/Wikimedia Commons
Andrea Di Turi
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C’è chi ha affermato che il rebranding dell’espressione “gas fossile” (che suona male perché sa di fonte fossile, come del resto è) con l’espressione “gas naturale” (assai più politicamente corretta in tempi di collasso climatico e transizione ecologica obbligata) sia stata una delle operazioni di marketing di maggior successo nella storia. Forse è vero. In ogni caso quel successo è stato traslato anche sul GNL, acronimo di gas naturale liquefatto.

Dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia in poi, il GNL, in particolare quello che viene dagli Stati Uniti, ha acquisito crescente importanza nel mix energetico europeo e italiano. Il ragionamento che si sente fare di solito, dai politici o dagli amici al bar senza troppe differenze, è che il GNL made in Usa è indispensabile per la sicurezza energetica, stanti le sanzioni occidentali alla Russia. E che comunque il suo impatto sul clima è inferiore a quello del carbone. Per cui tutto va bene, madama la marchesa. E invece no. Perché, per l’ennesima volta, si scopre che le cose non sono come vengono raccontate (spacciate?) dalla narrazione mainstream.

Tutti pazzi per il gas naturale liquefatto

Un nuovo report in uscita oggi a cura della francese Reclaim Finance e dell’italiana ReCommon rivela, infatti, che supportare il GNL significa alimentare il disastro climatico.

Si calcola infatti che i progetti di espansione globale del GNL potrebbero essere responsabili dell’emissione di oltre 10 gigatonnellate di gas serra entro il 2030. Pressappoco equivalenti alle emissioni annuali di tutte le centrali a carbone in attività. Il che metterebbe ancora più a rischio la possibilità (sempre che esista ancora) di mantenere il riscaldamento globale entro i limiti dell’Accordo di Parigi.

Il settore GNL sta vivendo un boom: ci sono più di 150 nuovi terminali (più di 60 destinati all’esportazione) pianificati entro il 2030. A livello internazionale sono coinvolte nell’espansione del business società come TotalEnergies, QatarEnergy, specialisti come Venture Global LNG. In Italia, Eni ed Enel. Tutto ciò nonostante l’AIE (Agenzia internazionale per l’energia) abbia avvertito sui rischi di sovracapacità per il settore. Che vuol dire rischio di stranded asset (asset incagliati) per chi finanzia lo sviluppo del business.

Dalle banche un fiume di denaro per il business del GNL

E veniamo ai finanziatori. Globalmente, tra 2021 e 2023, circa 400 banche hanno stanziato 213 miliardi di dollari per progetti di espansione del GNL. In Italia una dozzina di banche ha sostenuto con 6 miliardi di dollari i 150 maggiori sviluppatori di GNL, identificati in base ai dati di GOGEL (Global Oil and Gas Exit List), il database sull’industria oil&gas mantenuto dalla ong Urgewald, lanciato nel 2021 alla Cop26 di Glasgow.

A farla da padrone da noi sono state Intesa Sanpaolo e Unicredit che, insieme, ammontano all’85% del sostegno delle banche italiane al gas naturale liquefatto. Intesa Sanpaolo con 3,8 miliardi di dollari, UniCredit con 1,5 miliardi di dollari. Per giunta si tratta di un impegno cresciuto tra 2021 e 2023: del 38% per Intesa Sanpaolo, del 78% per Unicredit.

«Il GNL non ha alcun ruolo nella transizione sostenibile»

«Le attività finanziarie di Intesa Sanpaolo e Unicredit ignorano i loro impegni climatici e continuano a scommettere sull’espansione del GNL nonostante i segnali di mercato e gli scenari dell’AIE», dice ReCommon commentando i dati del rapporto. Mentre Reclaim Finance allarga il tiro sull’intero settore bancario, sottolineando che «le banche affermano di supportare le compagnie petrolifere e del gas nella transizione, ma investono invece miliardi di dollari in future bombe climatiche. Il GNL è un combustibile fossile e non ha alcun ruolo da svolgere in una transizione sostenibile».

Si chiede quindi alle banche di smettere di supportare l’espansione del business GNL e specialmente la costruzione di nuovi export terminal. Qualche banca ha iniziato a muoversi in questo senso: gli olandesi di ING, ad esempio, hanno imposto restrizioni ai finanziamenti per il gas naturale liquefatto. Diversamente da Intesa Sanpaolo e Unicredit, le cui policy in materia sono considerate fra le più deboli in Europa. Nonostante entrambe abbiano preso precisi impegni sul net zero e sull’allineamento agli obiettivi dell’Accordo di Parigi nell’ambito della Net Zero Banking Alliance.

Ma il gas naturale liquefatto è peggio del carbone

Uno dei problemi legati all’impatto climatico del GNL è che le varie fasi del suo trasporto accrescono il rischio di fughe di gas (methane leaks). Un problema bello grosso, perché il metano è un gas serra molto più potente (circa 80 volte) della CO2 su un orizzonte di vent’anni.

Se ne parla da un pezzo. Ad aggiungere poi il carico è stata una recentissima ricerca del professor Robert W. Howarth, della Cornell University, considerato uno dei più importanti scienziati al mondo per i suoi studi sul metano, critici specie sul fatto che si possa ritenerlo un combustibile di transizione. Secondo questa ricerca, l’impronta complessiva in termini di emissioni di gas serra del GNL importato dagli Stati Uniti è maggiore di un terzo rispetto al carbone in un arco temporale di vent’anni. Ma anche su un arco di cent’anni tale impronta resta uguale o superiore a quella del carbone.

Risultati che vanno in direzione ostinata e contraria rispetto alla narrazione mainstream. Provando, dati alla mano, come nella prospettiva della lotta alla crisi climatica il GNL sia una “falsa soluzione“. Da tenere a mente la prossima volta che si sentono parlare i politici. O gli amici al bar.