Sette anni di solitudine. La grande crisi dell’America Latina

Diminuisce il Pil pro capite, aumentano disoccupazione e lavoro informale: per il subcontinente, il boom economico è un lontano ricordo. La spesa pubblica risolleverà la situazione?

Matteo Cavallito
Scene di ordinaria protesta in Venezuela (2016). Nel 2019 il Pil della più tormentata nazione dell'America Latina si è contratto del 25% © DJANDYW.COM AKA NOBODY/Flickr
Matteo Cavallito
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Salvo miracolose e improbabili revisioni, l’America Latina dovrebbe aver chiuso il 2019 in uno stato di piena stagnazione. Nei 12 mesi appena conclusi l’espansione del Pil subcontinentale segnerebbe infatti un impercettibile +0,1% e le previsioni per l’anno in corso non sono particolarmente entusiasmanti: +1,3%. Se le stime dovessero essere confermate, il settennato 2014-20 farebbe registrare un’espansione media annuale dello 0,5%: la crescita di lungo termine più bassa degli ultimi 70 anni.

I numeri (inquietanti) li ha diffusi nelle scorse settimane dalla CEPAL, la Commissione regionale dell’ONU per l’area. Un quadro preoccupante, condizionato dalla debolezza della domanda interna (i consumi, insomma) e di quella esterna (materie prime) oltre che dalla «maggiore fragilità dei mercati finanziari internazionali» e dall’aumento della tensione sociale. Una piccola tempesta perfetta, verrebbe da dire.

Cile al rallentatore, Argentina in recessione, Venezuela -25,5%

Rallentamento generale, lumicini isolati e buio pesto a macchia di leopardo. Dominica (+9%), Antigua y Barbuda (6,2%), Repubblica Dominicana (4,8%) e Guyana (4,5% ma nel 2020, grazie al petrolio, si salirà all’85,6%!) chiudono l’anno con i fuochi d’artificio. Perù (2,3%) e Colombia (3,2%) crescono in modo significativo, ma nell’America Latina odierna i loro tassi di crescita – che dovrebbero trovare conferma anche quest’anno – restano un’eccezione. Nel 2019 l’economia brasiliana è cresciuta dell’1% (per i prossimi 12 mesi si parla di un +1,7%), Cile e Uruguay viaggiano a ritmi ancor più bassi (0,8% e 0,3% rispettivamente), Ecuador (-0,2%) e Paraguay (+0,2%) oscillano tra moderata recessione e sostanziale stagnazione.

La crisi colpisce malamente Argentina (-3% nel 2019, -1,3% nel 2020) e Nicaragua (-5,3% lo scorso anno, -1,4% nei prossimi 12 mesi), ma il vero film dell’orrore, ovviamente, è quello che si proietta in Venezuela. Nel 2019 il prodotto interno lordo della più disastrata economia dell’America Latina si è contratto del 25,5%. Per l’anno in corso si prevede una nuova recessione nell’ordine dei 14 punti percentuali.

Meno Pil pro capite, più disoccupati

Ad aggravare la situazione c’è poi il fattore demografico. Sebbene con tassi decrescenti, in America Latina la popolazione continua a crescere a ritmi superiori rispetto all’economia con tutte le ovvie conseguenze del caso.

Detto in altre parole, i benefici individuali si stanno riducendo da tempo sotto doversi punti di vista: ricchezza, lavoro, protezione sociale.

Tra il 2014 e il 2019 il Pil pro capite della regione ha ceduto quattro punti percentuali; nel 2019 il tasso di disoccupazione è salito all’8,2% contro l’8% dell’anno precedente.

Oggi nel Subcontinente ci sono 25,2 milioni di persone senza un impiego, un record storico. Come se non bastasse, osserva ancora la CEPAL, si assiste a «un deterioramento della qualità del lavoro per la crescita delle attività autonome e informali».

Un decennio vissuto lentamente

E dire che nulla, in principio, lasciava presagire il fosco seguito. Nel 2010, ha ricordato l’Economist, l’America Latina registrava un tasso di crescita prossimo al 6%. Ma si trattava di un fuoco di paglia, l’ultima eredità del boom delle materie prime. La verità, avrebbe notato in seguito la rivista Americas Quarterly, è che quello che si apriva allora tra mille speranze sarebbe stato per il Subcontinente nulla più che «il decennio dell’hangover». Un dopo-sbronza vissuto a ritmi bassi – con una crescita del Pil non superiore al 2,2%, circa la metà del tasso registrato nell’Africa Subsahariana – e costellato di errori di gestione.

Scarso sostegno agli investimenti, per dirne uno, ed eccessivo focus sulla domanda interna, grazie anche – come ha notato più di un osservatore – a un’espansione incontrollata del credito ai consumatori.

In Brasile, dove questo fenomeno è stato particolarmente evidente, i segnali di crisi si sono manifestati con un certo anticipo. In risposta al rallentamento generale, il governo ha provato la strada della crescita in deficit (con quest’ultimo a quota 9% del Pil nel 2015) ma senza successo. L’Argentina ci ha riprovato di recente e ha incassato il nono default della sua storia. Quanto al Venezuela servirebbe un esorcista: nella Repubblica Bolivariana, il tasso di inflazione misurato a luglio aveva raggiunto quota 10.000.000% (dieci-milioni-per-cento) e il debito estero ammonta a 100 miliardi di dollari.

La spesa pubblica salverà l’America Latina?

Come uscire dunque dalla crisi? L’Economist ha auspicato un nuovo contratto sociale suggerendo il superamento di «quell’antagonismo ormai comatoso tra liberismo e populismo di sinistra». Come dire: più mercato ma anche maggiore redistribuzione della ricchezza. La CEPAL, dal canto suo, chiama in causa in particolare il ruolo dello Stato: «Occorre – si legge in una nota – rilanciare l’economia attraverso una maggiore spesa pubblica per investimenti e politiche sociali».

A favorire questa strategia, sottolinea quindi la Commissione Onu per l’America Latina, la persistenza di elementi macroeconomici favorevoli come il basso livello di inflazione medio (2,6% escludendo Venezuela, Argentina e Haiti), le elevate riserve estere e i bassi tassi di interesse sul mercato internazionale. A patto di non scottarsi come in passato, verrebbe da sottolineare. Ma questa è un’altra storia. Che non deve ripetersi.