La guerra in Ucraina deve affrancarci dal gas. Non solo russo

Il conflitto tra Russia e Ucraina è l'occasione per l'Europa di ripensare la propria strategia energetica. Scegliendo efficienza e rinnovabili

Tubature per la costruzione del gasdotto Nord Stream 2 nel porto tedesco di Mukran © Gerd Fahrenhorst/Wikimedia Commons

L’idea del gas come fonte energetica di transizione, ponte tra il passato consolidato di dipendenza dalle fonti più inquinanti e il futuro tutto da scrivere dell’energia a zero emissioni, era già precaria prima della guerra in Ucraina. E ha perso ogni credibilità dopo la prima settimana di combattimenti.

La fuga delle compagnie occidentali dal gas russo

Il raddoppio dal gasdotto Nord Stream non ha avuto i permessi per operare. E la società che lo gestiva, con sede in Svizzera, è in bancarotta e ha licenziato tutti i dipendenti. L’onda si è alzata in fretta, British Petroleum ha annunciato la vendita della sua quota in Rosneft. Shell, Exxon e la compagnia di Stato norvegese Equinor si stanno ritirando da tutte le loro operazioni in Russia. Eni uscirà dalla partecipazione al gasdotto Blue Stream con la Turchia. L’agenzia italiana pubblica Sace ha sospeso le sue attività in Russia e Bielorussia.

«Investire nell’oil & gas russo è stato problematico per anni», ha scritto Kate Mackenzie nella newsletter Bloomberg Green. Ma «la realtà delle città europee sotto attacco ha cambiato tutto. Quando l’opinione pubblica muta, lo fa in fretta e lascia poco spazio per le giustificazioni». Tutto quello che resta è la desolazione degli stranded asset: investimenti e infrastrutture che all’improvviso si ritrovano senza più alcun valore

«La Russia ha danneggiato la reputazione del gas»

Secondo Marco Giuli, ricercatore esperto in energia e politica internazionale della Brussels School of Governance, la situazione è ancora piuttosto «ambigua». Ed è «difficile leggere l’impatto che avrà sulle politiche energetiche globali. Ma sicuramente la Russia ha fatto di tutto per danneggiare la reputazione del gas». L’Agenzia internazionale per l’energia ha pubblicato un decalogo su come ridurre la dipendenza dal gas russo

Oltre alle misure più ovvie, come non rinnovare i contratti in scadenza con Gazprom, e all’invito ad accelerare sulle rinnovabili, c’è anche il suggerimento di diversificare le fonti. Per la prima parte l’Italia lo ha anticipato. Ed è corsa, con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, a rafforzare il legame con un altro fornitore strategico, l’Algeria. La cui situazione politica instabile, però, suggerisce che diversificare venditori continuando a fare così tanto affidamento nel gas rischia solo di spostare il problema sullo scacchiere senza risolverlo.

L’Europa potrebbe puntare tutto sulle rinnovabili

Mentre lo scacchiere stesso sta tremando. La Russia è il secondo esportatore mondiale di gas dopo gli Stati Uniti, che vende GNL, gas liquefatto da rigassificare. «In questo momento c’è una corsa ad accaparrarselo. I prezzi volano, soprattutto a danno di Paesi come India, Pakistan e quelli del sud-est asiatico, che hanno creduto all’idea che si potesse decarbonizzare attraverso il gas. E che ora non hanno la potenza di fuoco finanziaria per competere su un mercato impazzito», spiega Giuli. Che aggiunge: «Se l’Europa si lancia in uno shopping selvaggio del GLN apre scenari terrificanti per i paesi in via di sviluppo». Instabilità che, come in un domino, porta altra instabilità. 

Ci sono due letture possibili dell’attuale situazione russa per l’Europa: la prima è accelerare in modo drastico sulle rinnovabili. Non solo per rispettare gli obiettivi climatici, ma per garantirsi quote di indipendenza energetica. «In questo scenario non deve diminuire solo l’uso del gas russo, deve diminuire l’uso del gas in generale», dice Giuli.

La chiave, come suggerito anche dallo studio del think tank italiano su energia e clima Ecco, è rendere stabili e strutturali risparmio ed efficienza energetica. Anche attraverso campagne di sensibilizzazione pubblica sull’uso dell’energia (che sono in ogni caso indispensabili). O togliendo al “Superbonus 110%” la possibilità di attingervi senza rinunciare alle caldaie a metano. 

Lo scenario che privilegerebbe ancora una volta le fonti fossili

Ma poi c’è un secondo scenario possibile, evocato dal presidente del Consiglio Mario Draghi la settimana scorsa e confermato anche dal vice presidente della Commissione europea Franz Timmermans: rallentare l’uscita dal carbone. «In questa situazione, non deve essere più un tabù», ha dichiarato il capo del governo italiano. All’improvviso, mappe come questa sono diventate scenari del terrore, e ridurre la dipendenza dal gas russo sembra aver divorato ogni altra priorità, Green Deal compreso. 

In Italia si sono aperte ipotesi fino a poco tempo fa impensabili, come il ricorso dall’olio combustibile, il petrolio bruciato a scopi energetici. In questo momento, però, serve altro: serve pensiero strategico. Quello che decideremo di fare in queste settimane avrà conseguenze energetiche per anni. E un impatto enorme sui piani di riduzione delle emissioni.

La dipendenza dalla Russia è stata un problema a lungo sottovalutato, non può essere sostituita aggravando altre dipendenze. E non si possono rimpiazzare stranded asset con altri stranded asset (questo sarebbe una corsa a nuovi terminal di rigassificazione, per esempio). Aver perso quel ponte che giudicavamo sicuro deve essere uno stimolo per rendere più veloce la transizione energetica. Più rapidamente saremo dall’altra parte, meglio sarà per tutti i cittadini europei.