Perché l’idrogeno verde rischia di essere un’illusione
Secondo uno studio di ReCommon, quella dell'idrogeno verde è una soluzione alla crisi climatica che presenta molte criticità
Da quando è stato annunciato il Green Deal, l’idrogeno è diventata una delle “soluzioni” per risolvere la crisi climatica. Sull’idrogeno si investe molto, salutandolo come “l’elemento più abbondante sul Pianeta”, “a emissioni zero”. Sono affermazioni vere, senz’altro, eppure, secondo l’associazione Re:Common, sono anche fuorvianti.
Anche se l’idrogeno verde può essere prodotto a emissioni (quasi) zero, ciò non significa che non ci siano conseguenze per l’ambiente: se pensiamo al trasporto su lunga distanza, per esempio, gli impatti sono gli stessi qualunque sia il colore dell’idrogeno. E poi stoccaggio e distribuzione: pochi sono gli approfondimenti su quali siano i rischi e i costi ambientali legati a queste tecnologie.
Davvero, quindi, l’idrogeno potrà essere la chiave di volta per raggiungere un paradigma economico «più sostenibile, democratico e giusto»? Secondo il rapporto “L’illusione dell’idrogeno verde” pubblicato da Re:Common, la risposta a tutte queste domande è “no”.
Idrogeno verde, la “molla” del greenwashing
ReCommon è partita dall’analisi della filiera dell’idrogeno più pulito, quello verde. La domanda da porsi è se esso sia davvero sostenibile oppure se si tratti di una “molla” (leggasi greenwashing) usata sapientemente dalle grandi corporation per chiedere investimenti pubblici, per esempio nel “riadattamento”, spiega l’associazione, della rete di trasporto e distribuzione del gas.
Sia il RePower europeo sia il Fit for 55, che fissa il 2030 come scadenza intermedia per raggiungere una riduzione “netta” delle emissioni di gas serra del 55% (rispetto ai livelli del 1990), puntano forte sulla carta idrogeno in chiave green. Ma, nel giro di poco, si è aperta prima una breccia a favore dell’idrogeno “blu”, quello prodotto da gas fossile con cattura e stoccaggio della CO2. E questo nonostante l’idrogeno blu generi emissioni ancora più alte del gas fossile che dovrebbe aiutare a decarbonizzare, come sostenuto da diverse ricerche.
E poi, con la guerra in Ucraina e la conseguente crisi energetica, si apre la possibilità di finanziare progetti di idrogeno non per forza verde, in particolare quello derivante da energia nucleare. «Non c’è che dire, un notevole cambio di rotta dalla prospettiva tendenzialmente green del Next Generation EU», scrive ReCommon, per cui tutti i cambi successivi nella scelta su “quale idrogeno” finanziare sono emblematici delle pressioni delle lobby energetiche sui governi e sulle istituzioni di Bruxelles.
Pochi giorni dopo il lancio di RePowerEU, infatti, ben 31 corporation energetiche, tra cui l’italiana Snam, hanno lanciato EHB, che sta per European Hydrogen Backone, il piano per gli investimenti necessari a concretizzare l’ingresso dell’idrogeno nelle nostre economie. Un piano da 80-143 miliardi di euro, che si può strutturare su ben cinque corridoi, o rotte, di importazione da completarsi entro il 2030. Per ora non ci sono limiti al colore dell’idrogeno che può scorrere in queste rotte.
Servirebbe tutta l’energia fotovoltaica che abbiamo per spingere l’idrogeno nei gasdotti
Ma costruire una rete di tubi per il trasporto dell’idrogeno per migliaia di chilometri è davvero sostenibile? Ridurre le emissioni di CO2, a patto che queste siano davvero abbattute con un mercato europeo dell’idrogeno, non significa necessariamente raggiungere l’obiettivo della sostenibilità, né tanto meno quello della giustizia sociale a cui ambiscono gli attivisti che chiedono un cambio di sistema e non solo l’uscita dalle fossili.
Un punto iniziale che emerge dallo studio realizzato per ReCommon da Leonardo Setti (università di Bologna) e Sofia Sandri (Centro per le Comunità Solari), è che il trasporto su lunga distanza dell’idrogeno porta con sé un dispendio di energia per niente trascurabile. Al netto della fattibilità operativa di un gasdotto al 100% a idrogeno per ragioni fisiche, è necessaria una potenza di compressione circa 3 volte maggiore per trasportare idrogeno puro rispetto ai normali metanodotti al fine di raggiungere la stessa capacità in termini di flusso di energia.
Se consideriamo l’attuale sistema di distribuzione del gas fossile tramite pipeline in Italia, sono attualmente presenti 13 centrali di ricompressione, necessarie per mantenere la spinta del gas nelle tubature, per una potenza totale installata di 961 megawatt posizionate ogni 100-200 chilometri della rete dei gasdotti. Parliamo di centrali che potrebbero essere chiuse con l’uscita dalle fossili, ma che invece dovrebbero essere potenziate passando all’idrogeno.
Stimando che questi impianti siano operativi su tutto l’arco dell’anno, per mantenere un pari flusso energetico in una eventuale pipeline di idrogeno occorrerebbero circa 20 terawattora di energia elettrica ogni anno per alimentare i ricompressori. Ovvero l’equivalente di quanto viene prodotto da circa 20 gigawatt di impianti fotovoltaici, che corrispondono alla potenza fotovoltaica installata attualmente in tutta Italia. Senza contare l’energia necessaria per stoccare l’idrogeno e per trasportarlo in forma liquida (in quanto andrebbe portato a una temperatura molto più bassa del gas: -253 gradi).
Greenwashing
Big Oil europee, solo lo 0,3% dell’energia prodotta da rinnovabili
Uno studio commissionato da Greenpeace mostra come per le grandi aziende dell’energia in Europa le rinnovabili siano ancora un miraggio
L’Europa punta sull’idrogeno rosa, ovvero da nucleare
Insomma, come ammonisce ReCommon, è importante chiarire di quale filiera dell’idrogeno parliamo, come verrà costruita, quali saranno i suoi impatti, quanto sarà sostenibile: «I pro e i contro di questi diversi modelli di fornitura devono ancora essere analizzati principalmente con una visione di lungo periodo, quindi con uno sguardo al rapporto tra costi e benefici non del singolo progetto ma del sistema nella sua interezza».
Attualmente, l’Unione europea stima una produzione di idrogeno da fonti rinnovabili di un milione di tonnellate annue entro il 2024 e dieci milioni entro il 2030 tramite l’elettrolisi dell’acqua. Ciò implica la realizzazione di elettrolizzatori per una capacità di potenza installata di 6 gigawatt al 2024 e di 40 gigawatt al 2030. Ma secondo lo scenario elaborato dal World Energy Council Europe (WEC-Europe), 40 gigawatt produrranno 2,6 milioni di tonnellate di idrogeno (contro la stima prevista di 8 milioni dell’Ue) e solo 0,8 di queste saranno effettivamente verdi. L’unico modo per raggiungere gli obiettivi europei è usare un colore diverso di idrogeno, in particolare quello “rosa”, cioè proveniente dalla fissione nucleare. Un idrogeno tutt’altro che green.
E poi c’è il consumo di suolo
Infine c’è un tema poco discusso quando si parla di idrogeno: il consumo di suolo. Quanta superficie viene occupata da un elettrolizzatore? L’energia elettrica necessaria per alimentare un solo elettrolizzatore da 100 megawatt richiederebbe una potenza fotovoltaica di 625 megawatt, potenza che può essere prodotta da un mega parco fotovoltaico di circa 862 ettari. Tanto per avere un’idea dimensionale, il più grande parco fotovoltaico si trova vicino a Foggia, in Puglia, è di 103 megawatt e copre una superficie pari a 142 ettari: l’equivalente di 200 campi di calcio.
Per raggiungere l’obiettivo del piano strategico italiano di una potenza di elettrolizzatori pari a 5 gigawatt bisognerebbe realizzare 50 elettrolizzatori da 100 megawatt, quindi una disponibilità di 5.500 chilometri quadrati, che equivalgono alla superficie delle province di Modena e di Reggio Emilia messe insieme. Ciò significa, interpreta ReCommon, che non è possibile posizionare gli impianti per la produzione di energia rinnovabile a ridosso di quelli per la produzione di idrogeno, come invece annunciano i vari progetti di hydrogen valley: «Lo scenario sarà inevitabilmente quello di una filiera molto lunga e tutt’altro che sostenibile», conclude l’associazione ambientale.