Incubatori e startup, crescita disordinata che ignora etica, CSR e impatti sociali
Il Politecnico di Torino: l'ecosistema dell'innovazione cresce nei numeri ma a macchia di leopardo. E sulla sensibilità sociale la strada da fare è ancora lunga
Incubatori d’impresa (o acceleratori), ovvero ambienti nati per supportare nascita e sviluppo delle cosiddette “startup“. Cioè le nuove imprese italiane con meno di cinque anni di vita. Incubatori e startup come due facce della stessa moneta, complementi di una sorta di ecosistema dell’innovazione, economica e imprenditoriale.
Valori nel 2017 aveva indagato questo ecosistema accendendo i riflettori soprattutto su investimenti e performance delle startup, individuando diverse criticità. Ma più di un anno è passato e il settore – per definizione – si rinnova in fretta. Ecco perché è interessante la nuova fotografia scattata dal team di ricercatori del Social Innovation Monitor (SIM), del Politecnico di Torino.
Il loro lavoro fa le pulci all’attività di 77 incubatori sui 171 individuati a livello nazionale (di cui 32 certificati dal ministero dello Sviluppo economico). L’indagine fa particolare attenzione alla penetrazione dei principi della CSR (Corporate Social Responsability o responsabilità sociale d’impresa), degli obiettivi d’impatto sociale e dell’educazione all’etica degli affari negli acceleratori e nelle giovani società “incubate”. E i risultati in questo senso non sono positivi.
Incubatori: Lombardia su tutte, ma che delusione il Nord-Est
La prima notizia è che il numero degli incubatori cresce ma di poco (+5,3% tra 2016 e 2017), da 162 a 171. Il 64,2% è di natura privata, il 13,9% ha natura pubblica e il 21% è un mix pubblico-privato.
Quasi il 60% si trova in Italia settentrionale. La Lombardia è la regione che ne ospita il maggior numero, con il 25,3% del totale, seguita da Emilia Romagna, con il 10,6%, e Toscana con l’8,8%. L’area meridionale, quella insulare e i territori del Nord-Est rappresentano invece le zone in cui vi è il minor numero di incubatori. Una distribuzione che – fa notare il professor Paolo Landoni, responsabile scientifico della ricerca – evidenzia un’anomala povertà di presenze in regioni che pure non mancano di risorse imprenditoriali e finanziarie.
Dal punto di vista del fatturato, la media è superiore al milione di euro, con un incremento per incubatore del 15% sul 2016. Ma il dato è fuorviante: dietro di esso infatti, si nasconde una realtà in cui un piccolo numero di incubatori di grandi dimensioni alza il valore medio. Calcolando la mediana invece della media, ci si trova di fronte a una cifra ben diversa e notevolmente inferiore: appena 250mila euro di fatturato.
Impatto sociale cenerentola nel settore. E ne risentono anche CSR ed etica
Intorno a questo ecosistema non si muovono dunque fatturati da capogiro. Ma la nota più dolente proviene da un’aspetto qualitativo, rimarcato con immediatezza dall’indagine.
«Gli incubatori considerano poco rilevante offrire servizi di valutazione dell’impatto sociale e consulenza su CSR ed etica aziendale»
Il motivo è legato in parte alla composizione del campione degli incubatori indagati dai ricercatori: di essi, solo 13 sono social incubators (nei quali più del 50% di organizzazioni incubate è a significativo impatto sociale). Ma è indubbia l’eccessiva mancanza di attenzione da parte dei cosiddetti business incubators (in cui non è incubata alcuna organizzazione a significativo impatto sociale) e mixed incubators (da una al 50% di organizzazioni incubate a significativo impatto sociale).
Una lacuna che, a guardare i dati, non appare giustificata almeno per due motivi. Innanzitutto perché non rispecchia l’interesse delle stesse startup che decidono di avvalersi degli acceleratori. Queste organizzazioni includono, oltre a chi è specificamente for profit, sia non-profit che ibride, ovvero società che destinano parte degli utili a scopi sociali o esplicitano un fine sociale tra i propri obiettivi (SIaVs, BCorp). Complessivamente tutte queste realtà considerano infatti come più rilevanti, dopo quelli amministrativi e legali, proprio i servizi di formazione e consulenza su CSR ed etica aziendale, nonché di valutazione dell’impatto sociale.
Il secondo motivo è che, se si considerano le performance economico-finanziarie e occupazionali, si scopre che le startup ad impatto sociale sono perfettamente paragonabili alle altre imprese neonate. Tant’è che solo il 5,6% degli incubatori inserisce i minori ritorni finanziari attesi quale motivo di esclusione per questo tipo di organizzazioni.
Come investono gli incubatori? Capitale di rischio e work for equity
Un’ulteriore rilevazione interessante è quella sulle interazioni economiche tra incubatori e startup “incubate”. Una connessione che si muove su due binari: o attraverso l’investimento monetario oppure grazie all’investimento in cambio di prestazioni e servizi (work for equity).
Interazioni significative, dal momento che più di un terzo del campione degli incubatori ha investito nelle proprie organizzazioni incubate nel 2017, con una quota di incubatori diventati “soci” che è passata dal 23,5% al 36,8%. E quasi la totalità (35,5% su 36,8%) di chi possiede quote societarie nelle incubate fa investimenti monetari in capitale di rischio. Diversamente da quanto accade rispetto alla modalità del work for equity, che vede un solo incubatore ogni cinque assumere quote societarie in cambio di prestazioni e servizi.