Israele e Hamas. La via della pace contro gli opposti estremismi
Di fronte alla barbarie e ai crimini di Israele e Hamas è necessario un sussulto da parte delle diplomazie. La pace è l'unica strada
La nostra è una testata che, come i nostri lettori sanno, si occupa di finanza etica e di economia sostenibile. Non è nostro compito seguire l’attualità internazionale, ancorché molto spesso le cause e le conseguenze di ciò che accade nel mondo sono da ricercare anche nei comportamenti di banche e fondi d’investimento, nelle speculazioni finanziarie, nelle strategie di aziende che fabbricano armi o producono carburanti di origine fossile. Ciò detto, la situazione attuale in Palestina e Israele è talmente grave da impedire il silenzio.
Il nostro giornale, da sempre, è di parte. E la nostra parte è quella della pace. Non soltanto a Tel Aviv, in Cisgiordania e nella striscia di Gaza. Ma la pace, nella storia, è quasi sempre arrivata soltanto in due modi. O per accettazione – più o meno indotta, più o meno convinta – dai belligeranti. O per la sconfitta di una delle due parti. Con tutto ciò che ne consegue in termini di morte, distruzione e sofferenza.
È per questo che una soluzione pacifica non potrà arrivare attraverso posizionamenti sbilanciati, da un parte e dall’altra. Sia ben chiaro: non è un discorso “ecumenico”, semmai l’esatto contrario. La sola via possibile per una risoluzione del conflitto arabo-israeliano passa per l’ipotesi dei due Stati, liberi, sovrani e indipendenti. Come chiesto a più riprese dalle Nazioni Unite.
Per farlo, serve apertura. Oggi, invece, a prevalere a Tel Aviv e a Gaza sono due opposti estremismi. Non è un caso se l’ultima volta che, dopo il lontanissimo settembre 1993, sono stati effettuati tentativi seri di dialogo è stato nel 2014 quando il segretario di Stato dell’amministrazione del presidente americano Barack Obama, John Kerry, aveva tentato, invano, di far negoziare il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Per quanto riguarda il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’ultima iniziativa risale al 23 dicembre 2016, con l’adozione (all’unanimità!) della risoluzione 2334, nella quale, dopo aver ricordato «la visione di una regione nella quale due Stati democratici, Israele e la Palestina, vivono fianco a fianco», ha riaffermato:
– che «l’acquisizione di territori con la forza è inammissibile»;
– che «lo status quo non è accettabile»;
– che «la creazione di colonie da parte di Israele costituisce una violazione flagrante del diritto internazionale»;
– che «Israele, potenza d’occupazione, è tenuta a rispettare i suoi obblighi in virtù della quarta convenzione di Ginevra».
Un altro estremista, Donald Trump, si è insediato pochi giorni dopo alla Casa Bianca e ha cambiato tutto. Ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele (dicembre 2017), ha chiuso il consolato degli Stati Uniti a Gerusalemme Est, ha ridotto drasticamente gli aiuti all’agenzia delle Nazioni Unite incaricata di portare sostegno a 5,8 milioni di palestinesi (la Unrwa) e ha proposto un piano di pace impraticabile nel gennaio 2020.
A ciò si aggiunge il fatto che oggi la compagine governativa israeliana rende la situazione ancor più drammaticamente polarizzata: a scontrarsi, tra Tel Aviv e Hamas, sono come detto due opposti estremismi, come spiegato anche da Jean-Paul Chagnolleau, uno dei massimi esperti europei della questione israelo-palestinese, presidente dell’Istituto francese di ricerca e studi su Mediterraneo e Medio Oriente, professore emerito di Scienze politiche all’università di Cergy-Pontoise, che ha pubblicato un fondo sul quotidiano francese Le Monde (all’estero i mezzi d’informazione, anche quelli mainstream, hanno un atteggiamento ben più laico rispetto alle testate italiane sulla vicenda).
Scrive il docente: «Netanyahu, già come primo ministro dal 1996 al 1999, aveva fatto di tutto per ostacolare il processo di Oslo, che considerava come “il problema e non la soluzione”. Posizionamento ancor più affermato oggi attraverso l’alleanza con i leader della destra più estremista, appartenente alla stessa linea ideologica di coloro che assassinarono Yitzhak Rabin nel novembre del 1995. L’obiettivo dichiarato di questa coalizione è l’annessione della Cisgiordania, implicando la totale sottomissione di tre milioni di palestinesi e il mantenimento dell’embargo su Gaza, per mantenervi rinchiusi i 2 milioni di persone che vi abitano».
L’ordine impartito questa mattina dalle autorità militari israeliane ad 1,1 milioni di persone di concentrarsi a sud di Wadi Gaza entro le prossime 24 ore lo dimostra pienamente. È un ordine oggettivamente e indiscutibilmente ineseguibile in così breve tempo, per di più senza carburante e acqua poiché tagliati dagli stessi israeliani. La Croce Rossa Internazionale, custode delle convenzioni di Ginevra, è stata chiara. E Unhcr ed Unrwa confermano l’impossibilità di muovere così tante persone in questi tempi e in questo contesto.
Di contro, i palestinesi «anziché cercare di trovare la strada della loro unità nazionale, come all’epoca di Yasser Arafat (presidente dell’Autorità palestinese dal 1996 al 2004) e dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, non hanno fatto altro che combattersi, con Hamas da una parte e l’Autorità palestinese dell’altra. Hamas si è chiusa in una deriva autoritaria a Gaza e l’Autorità si è impantanata in una sterile cooperazione di sicurezza con Israele, ignorando le aspirazioni dei giovani palestinesi, presso i quali ha perso ogni credibilità».
Oggi la Palestina è divisa tra milioni di persone in esilio nei campi profughi e altri milioni che si trovano sotto il dominio di una potenza d’occupazione (sempre secondo l’espressione unanime dei membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite) dal 1967: «Ciò significa che un’intera generazione di giovani è privata del suo avvenire. Ovvero, le è impedito di vivere. Restava solo da chiedersi da dove sarebbe arrivata una nuova esplosione: da una nuova forma di intifada in Cisgiordania o da Gaza con Hamas?».
Ciò detto nulla, nulla, nulla può giustificare la barbarie compiuta da Hamas. Che è un crimine di guerra e contro l’umanità. Ciò – per pura onestà intellettuale – non ci impedisce di condannare anche gli atti barbari che troppo spesso sono stati compiuti contro i palestinesi. I bombardamenti a tappeto e il taglio dei mezzi necessari per la sopravvivenza sono potenziali crimini di guerra, altrettanto, ai sensi degli articoli 7 e 8 dello Statuto della Corte penale internazionale. Identico discorso vale per i rapimenti di ostaggi civili da parte dei fondamentalisti islamici.
Non c’è alcuna differenza tra un bambino israeliano ucciso con un colpo alla nuca e un bambino palestinese ucciso con un missile sulla testa. Né fa alcuna differenza la narrativa del “chi ha cominciato prima” (per la quale si aprirebbe un gioco senza fine che porterebbe al 1948).
Gaza è una prigione a cielo aperto. Nella quale persone innocenti (o comunque non processate) sono sottoposte a punizioni atroci: non possono uscire, acqua ed elettricità sono fornite a piacimento e a singhiozzo, mancano scuole, medicine, infrastrutture. L’area è circondata da muri, fili spinati, torrette con sentinelle. I pochissimi varchi sono presidiati (e oggi chiusi perfino agli operatori umanitari). Due milioni di persone sono lasciate lì a vivere in condizioni disumane e centinaia di loro sono sistematicamente ammazzate ogni anno, nella sostanziale, vergognosa indifferenza della comunità internazionale.
In Cisgiordiania, in barba a numerosissime risoluzioni dell’Onu, Israele continua ad imporre insediamenti illegali. Cacciando – letteralmente – i palestinesi dalle loro case e dalle loro terre, che vengono “assegnate” a israeliani, protetti poi dall’esercito. Senza dimenticare le vessazioni, le mancanze di rispetto e le forme di apartheid a cui sono sottoposti quotidianamente i cittadini arabi. Un comportamento, anche qui è necessario utilizzare le parole giuste, che non è quello che ci si può aspettare da una democrazia. Ove con tale termine non ci si riferisce al mero atto di andare a votare per eleggere i propri rappresentanti e governanti, ma ad un corpus di valori proprio, appunto, delle società democratiche.
Mentre scriviamo, i numeri del conflitto sono i seguenti: l’attacco di Hamas ha provocato più di 1.200 morti e 3.391 feriti, secondo il ministero della Salute di Tel Aviv. La risposta israeliana ha comportato (per ora) l’uccisione di 1.537 persone e il ferimento di altre 6.612 solo nella Striscia di Gaza, secondo il ministero della Salute locale. Un comunicato dell’esercito israeliano indica che sull’area sono state sganciate seimila bombe, per un peso totale di circa quattromila tonnellate di esplosivo. E gli Stati Uniti si sono affrettati ad assicurare che forniranno altre armi.
Al contrario, i governi di tutto il mondo dovrebbero fornire personale diplomatico. Anche laddove la diplomazia sembra impossibile. Ma la politica appare incapace di comprendere cosa ci sia dietro le violenze e i morti: nel Regno Unito si parla di considerare un atto criminale sventolare una bandiera palestinese, in Francia il ministero degli Interni ha appena vietato le manifestazioni di solidarietà alla popolazione di Gaza.
La realtà è che quasi mezzo milione di persone ha abbandonato le proprie case in quel lembo di terra martoriato tra il fiume Giordano e il Mediterraneo. Ci sono più di 50mila donne incinte sotto le bombe a Gaza. 5.500 di loro dovranno partorire nel prossimo mese. Le ong hanno riferito di ospedali e ambulanze bombardati.
Che a Tel Aviv o tra i guerriglieri di Hamas possano esserci prese di coscienza, al momento, è francamente impensabile. Israele ha parlato di «assedio totale», di «animali umani»; Hamas rivendica con soddisfazione atti efferati. Le voci del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, del papa e delle organizzazioni umanitarie sembrano annegare nel frastuono delle bombe. Ma chi cerca la pace è proprio ora che non deve demordere. Un’escalation avrebbe conseguenze imprevedibili per il mondo intero. E schierarsi acriticamente con Israele o con Hamas, oggi, è il modo migliore per avvicinarci allo scenario peggiore.