Il caso Klopp. O come nel calcio la sinistra crea idoli che si bruciano subito
Jurgen Klopp, ex beniamino della sinistra, andrà a lavorare per la Red Bull, multinazionale simbolo del calcio finanziario
«Non fare di me un idolo mi brucerò», salmodiava il cantante di una punk band emiliana filosovietica che andava per la maggiore tra il pubblico di sinistra. E infatti oggi è incensato nei circoli ultra conservatori per le sue posizioni reazionarie. «Se volete dipingermi come Gesù, quando poi vi accorgerete che non so camminare sull’acqua cominceranno i problemi», dichiarava nella sua prima conferenza stampa come allenatore del Liverpool un tedesco che in breve è diventato l’idolo dei calciofili di sinistra. Solo che oggi ha firmato un contratto con una multinazionale che è il simbolo dei monopoli del calcio finanziario. E anche di molto peggio. Così, oggi, gli stessi appassionati che prima lo osannavano ora si sentono traditi.
Perché quella di Jurgen Klopp, l’ex allenatore del Liverpool che pochi giorni fa ha firmato un lucrativo contratto con la Red Bull, è una storia paradigmatica. Ma non è la prima. Basti pensare a Paul Breitner che, negli anni Settanta, si professava maoista salvo poi essere tra i primi calciatori ad avere sponsor individuali e a rifiutarsi di giocare in Nazionale se non gli alzavano i premi personali. Per poi finire al Real Madrid del dittatore fascista Franco. E attraversare, da Johan Cruijff a Pep Guardiola solo per citare i più noti, la storia delle immense contraddizioni del calcio. Una storia che (non) si conclude con Riccardo Zampagna, ex bomber della Ternana che in campo salutava a pugno chiuso e poi lo scorso anno si è candidato con una lista di estrema destra vicina a Fratelli d’Italia.
Klopp, ciliegina sulla torta della “redbullizzazione” del calcio
Ma torniamo all'(ex) idolo Klopp. L’ex allenatore del Liverpool da gennaio prenderà 12 milioni di euro all’anno per diventare “responsabile globale per il calcio” della multinazionale austriaca: la nemica numero uno degli appassionati di calcio. Red Bull, che già investiva nell’hockey e nei motori, nel 2005 comprò infatti lo storico club austriaco Sportverein Austria Salzburg. Ne modificò nome, stemma e colori sociali – onta suprema per ogni tifoso – e creò il Fußballclub Red Bull Salzburg. Non contenta, fece la stessa cosa nel 2006 a New York, trasformando i New Jersey MetroStars nei New York Red Bulls. E poi nel 2009 in Germania, dove comprò il SSV Markranstädt e – sempre modificando nome, stemma e colori – lo trasformò nel RasenBallsport Leipzig.
Oggi il marchio Red Bull ha squadre in ogni continente. E pochi giorni fa, contestualmente all’annuncio di Klopp, ha annunciato di voler comprare il 15% dello storico club parigino Paris Fc. Mentre il 55% andrà a Bernard Arnault. Una vera e propria concentrazione di potere, che va ben oltre la proprietà economica. Da anni si parla infatti di “redbullizzazione” del calcio, riferendosi all’idea della multinazionale di avere ovunque lo stesso nome e simbolo, e di scambiarsi tra di loro i giocatori. Ora, anche di far giocare tutte le squadre allo stesso modo. Ecco spiegato così il compito di Klopp come “responsabile globale del calcio”. E non è un caso che sia lui. Perché sulla panchina delle due squadre principali di Red Bull siedono Pepijn Lijnders (Salisburgo), ex secondo di Klopp a Liverpool, e Marco Rose (Lipsia) che di Klopp è considerato discepolo.
Il rapporto con il capitalismo di «un miliardario in tuta che lavora per un fondo finanziario»
La concentrazione di potere della Red Bull ha però anche risvolti economici e giuridici. Nonostante le multiproprietà siano state vietate dalla Uefa, per evitare che due squadre dello stesso padrone si scontrassero nelle coppe, il regolamento è stato cambiato proprio per Red Bull. E nel 2019 Red Bull Salzburg e RasenBallsport Leipzig si sfidarono in Europa League. Fu lo squarcio che aprì la voragine normativa per cui tutti i fondi d’investimento proprietari di un club di calcio europeo si sentirono in diritto di comprarne altri. Creando questa situazione assurda per cui le più grandi squadre europee che si sfidano nelle coppe appartengono più o meno tutte agli stessi padroni. E sono finanziate dagli stessi fondi d’investimento.
Il volto gentile di questo enorme conflitto d’interesse tutto interno al capitale e ai padroni diventerà dal prossimo gennaio Jurgen Klopp, (ex) idolo della sinistra per le sue (condivisibili) posizioni su società, conflitti e migranti. Per usare le parole di Jonathan Liew sul Guardian, «basta guardare per cinque minuti la televisione tedesca – dove Klopp sponsorizza di tutto, dalla birra alle biciclette a società di prestiti finanziari – per capire il suo amore per il capitalismo. La stessa idea che un miliardario in tuta che ha passato gli ultimi nove anni della sua vita a lavorare per dei finanzieri americani potesse essere una specie di rivoluzionario è sempre stata una triste fantasia».
Il problema non è oggi disconoscere Klopp – noi stessi lo abbiamo usato per raccontare il fenomeno delle “grandi dimissioni” nel calcio – ma rendersi conto che dei Klopp non bisogna farne un culto sovversivo. Perché la storia del calcio è una storia di incoerenze e contraddizioni. E il calcio va amato o meno per questo. Non perché esistano da qualche parte delle presunte oasi felici di allenatori o di calciatori “di sinistra”.