Le donne (molte) alla guida di un Paese salvano (molte) vite umane

Se almeno il 30% dei parlamentari è donna si riduce la mortalità infantile e materna. Soprattutto nei Paesi meno democratici. Lo dimostra uno studio dell'università Bocconi

"Le donne al parlamento" è una commedia di Aristofane andata in scena per la prima volta ad Atene nel 391 a.C. Narra di un gruppo di donne che decidono di convincere gli uomini a dar loro il controllo di Atene, perché in grado di governare meglio. Nell'immagine "Le dame in blu", un affresco del palazzo di Cnosso sull'isola di Creta

Le donne in parlamento possono salvare le vite di donne e bambini. Se sono almeno un terzo dei parlamentari ottengono un netto calo della mortalità infantile e materna. Soprattutto nei Paesi meno sviluppati economicamente e meno democratici. Lo dimostra uno studio pubblicato su Demography, condotto da un team di ricercatori dell’Università Bocconi, dell’Università di Limerick e della London School of Economics and Political Sciences.

Almeno un terzo dei parlamentari in rosa

Dallo studio è emerso un risultato eclatante: in questi Paesi, quando la quota di donne in parlamento passa da meno del 10% a più del 30% (soglia auspicata dalle Commissioni per le Pari Opportunità delle Nazioni Unite), la mortalità infantile si dimezza, da 60 a 30 per 1.000, e la mortalità materna si riduce dell’80%, da 250 a 50 per 100.000.

«La soglia è importante – dice Naila Shofia, giovane docente dell’Università Bocconi e co-autore dello studio – perché una bassa percentuale di parlamentari donne rischia non solo di essere inefficace, ma anche di essere sfruttata come legittimazione per le politiche scelte dalla stragrande maggioranza di parlamentari uomini».

Nei paesi meno sviluppati

«Secondo i nostri risultati – aggiunge Naila Shofia  – le quote di genere sono utili soprattutto dove sembra meno scontato. Il buon senso suggerisce che, nei Paesi sviluppati e democratici, i canali consolidati facilitino la trasmissione di politiche a sostegno delle donne. Tuttavia, nei Paesi sviluppati esistono già sistemi di welfare che proteggono le donne e i bambini, con la libera stampa e le Ong a controllare che questi sistemi non vacillino. Di conseguenza le parlamentari, in questo contesto, possono fare solo una differenza marginale. Nei Paesi in via di sviluppo, al contrario, possono contribuire a creare tali sistemi di welfare sollevando la questione in parlamento nel caso in cui la stampa e le Ong non riescano a farsi ascoltare».

Più donne significa più attenzione a mamme e bambini?

Lo studio parte dal presupposto che le donne diano priorità al benessere materno e infantile e si domanda se sia lecito attendersi che una quota maggiore di donne in parlamento si traduca in una minore mortalità materna e infantile.

Per capire se una congrua percentuale di donne in parlamento si traduca in una migliore rappresentanza degli interessi delle donne, gli studiosi hanno analizzato la composizione del parlamento e i tassi di mortalità materna e infantile in 155 paesi tra il 1990 e il 2014.

Il risultato è stato quello descritto sopra: la rappresentanza politica delle donne risulta essere associata a una significativa diminuzione della mortalità materna e infantile, con i maggiori effetti in contesti di bassa democrazia e basso sviluppo economico e sociale, quando le donne detengono almeno il 30% dei seggi parlamentari.

In Ruanda il parlamento più femminile

La percentuale di donne nei parlamenti di tutto il mondo è aumentata dal 6,2% del 1975 al 20,4% del 2015, le quote sono in vigore in Paesi come il Ruanda e 42 Paesi hanno già raggiunto la soglia del 30% raccomandata dall’Onu.

Proprio il Ruanda, incredibile a dirsi, è il Paese al mondo che conta la maggiore percentuale di donne in Parlamento con il 61,3% (secondo i dati dell’Unione interparlamentare mondiale). Il piccolo Paese africano, che negli Anni ’90 è stato protagonista di un vero e proprio genocidio, è retto da una repubblica presidenziale a elezione diretta con due Camere, quella dei rappresentanti e il Senato dove gli uomini sono meno della metà, appena il 38,7%.

Altra sorpresa dal secondo posto in classifica per la la rappresentanza femminile in parlamento: si trova Cuba con il 53,2% dei propri rappresentanti donne. Al terzo posto la Bolivia con il 53,1%. Al quarto posto il Messico con il 48%.

E i Paesi del Nord Europa? La Svezia è solo nona al mondo con il 43,6% dei parlamentari donne. La Finlandia viene dopo con il 42% e poco dopo c’è la Norvegia con il 41,4%. Tra i Paesi dell’Europa occidentale la prima a comparire è la Francia con il 39,6% di parlamentari donne. Subito dopo c’è il Mozambico con il 39,6% che precede un altro Paese molto “egualitario”, almeno a parole, cioè la Spagna dove le parlamentari donne sono il 39,1%. L’Italia è in 28esima posizione: da noi le donne presenti in parlamento sono il 35,7% del totale.

Le donne portano vantaggi economici

La partecipazione delle donne alla vita politica e, quindi, la presenza rilevante di donne al governo di un Paese porta notevoli vantaggi in termini di politiche per la salute e di minore mortalità, come dimostra la ricerca citata in questo articolo. Ma investire sulle donne, sul loro benessere, sui loro salari, sulla loro salute e istruzione, sui servizi alle famiglie, così come sulla loro maggiore partecipazione alla politica e alla direzione di piccole e grandi imprese, porterebbe anche notevoli benefici economici. Lo sostiene il World Economic Forum (Wef).

La parità di genere economica potrebbe aggiungere ulteriori 250 miliardi di dollari al Prodotto interno lordo del Regno Unito, 1.750 miliardi di dollari a quello degli Stati Uniti, 550 miliardi ai giapponesi, 320 miliardi di dollari alla Francia e 310 miliardi al PIL alla Germania.

Altre stime del WEF suggeriscono che la Cina potrebbe vedere un aumento del Pil di 2,5 trilioni di dollari grazie alla parità di genere e che il mondo nel suo complesso potrebbe aumentare il PIL globale di 5,3 trilioni di dollari entro il 2025 (in pratica, tre volte il Pil dell’Italia), se solo riducesse di appena il 25% il divario uomo/donna nella partecipazione economica. Meccanismo che potrebbe portare nel gettito fiscale globale oltre 1,4 trilioni di dollari, con ben 940 miliardi di ricaduta sulle economie emergenti.