Licenza Opl245: «Vertici Eni e Shell sapevano delle tangenti in Nigeria»

Nelle motivazioni della sentenza di condanna di due intermediari del mega-affare petrolifero, parole durissime contro Eni. Le prove influiranno anche nel processo principale

Luca Manes
Luca Manes
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Se il buongiorno si vede dal mattino, gli imputati del processo OPL245 farebbero bene a iniziare a preoccuparsi. Sono state infatti rese pubbliche le motivazioni della sentenza di condanna a quattro anni disposta nei confronti dei due intermediari del mega affare petrolifero, Gianluca Di Nardo e Emeka Obi, e il loro contenuto è a tratti dirompente.

Doverosa premessa, parliamo di un rito abbreviato richiesto da entrambi i «negoziatori», con dibattimenti a porte chiuse e giudice monocratico (il gup Giusy Barbara) che ha deciso sulla base delle prove documentali messe a disposizione dai pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro.

Prove evidentemente schiaccianti

Evidentemente, però, stiamo parlando di evidenze processuali così forti che hanno portato il giudice Barbara non solo a condannare Di Nardo e Obi, ma anche a “fissare” dei passaggi di non poco conto.

Prima di tutto, l’Eni non poteva non sapere: «è smentita da tutte le prove dichiarative e documentali acquisite l’affermazione che Eni non fosse da sempre a conoscenza del fatto che la sua controparte nella compravendita di OPL 245 era chief Dan Etete» si legge nella sentenza.

Da una mezza dozzina d’anni la tesi del Cane a Sei Zampe (per la verità ribadita anche dopo la pubblicazione della sentenza) consiste nel negare a spada tratta la seppur minima conoscenza che dietro la società intestataria della licenza OPL 245 ci fosse Dan Etete, l’ex ministro del Petrolio dei tempi della dittatura di Sani Abacha, successivamente condannato per riciclaggio di denaro.

Negare, negare, negare

Durante una sequela di assemblee degli azionisti e anche nel corso di un’audizione parlamentare datata aprile 2014 (presente l’allora Amministratore delegato Paolo Scaroni), i vertici dell’Eni hanno sempre negato quanto invece era stato loro comunicato nero su bianco dalla società di consulenza indipendente denominata The Risk Advisory Group sia nel 2007 che nel 2010.

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Nelle oltre 300 pagine della sentenza, il giudice Barbara riporta un passaggio quanto mai significativo del rapporto del 2007, riferendosi alla momentanea revoca della licenza ordinata dal governo nigeriano nel 2001: «la licenza è stata concessa a Malabu senza una offerta aperta o concorrenziale e Abacha ed Etete hanno abusato del loro ruolo assegnando a se stessi il blocco». The Risk Advisory Group non ha mai lesinato dettagli sul passato giudiziario di Etete.

Va rammentato che dell’intreccio Malabu-Etete era invece a conoscenza, per sua stessa ammissione, la Shell. Leggendo la sentenza si capisce meglio il motivo di questa asimmetria sull’argomento tra le due oil major: nelle loro comunicazioni – email e telefonate ora agli atti – gli alti dirigenti della compagnia anglo-olandese erano fin troppo espliciti sul tema Malabu. Difficile negare l’evidenza.

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Da Eni e Shell «adesione consapevole a un progetto predatorio»

Ma oltre a ricostruire in maniera certosina vari passaggi che hanno portato alla lunga trattativa per l’OPL 245, il gup milanese evidenzia in maniera molto netta come «il management di Eni e Shell è stato pienamente a conoscenza del fatto che una parte degli 1,092 miliardi di dollari pagati sarebbe stata utilizzata per remunerare i pubblici ufficiali nigeriani che come ‘squali’ famelici ruotavano intorno alla preda. Si è trattato non di mera connivenza, ma di adesione consapevole ad un progetto predatorio in danno dello stato nigeriano».

Stato nigeriano che è stato di fatto defraudato e «nell’ottica italiana appare poi ancor più grave per il coinvolgimento della principale società del nostro Paese, di cui lo Stato italiano è il maggior azionista, con un evidente danno anche di immagine all’intera collettività nazionale».

Descalzi «prono a pretese di Bisignani»

Le stilettate all’Eni e ai suoi manager non finiscono qui, dal momento che la Barbara scrive di 50 millioni di dollari consegnati in contanti «presso la casa di Roberto Casula», ossia di una parte del miliardo e 92 milioni, che rappresenterebbe il pagamento per OPL 245 e quindi la mega tangente, «retrocessa» ai vertici del Cane a Sei Zampe (Casula è al momento in aspettativa perché coinvolto nelle indagini su un altro caso di corruzione in Repubblica del Congo).

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Last but not least, molto rilevante il passaggio sull’attuale ad Claudio Descalzi, «prono di fronte alle pretese di Bisignani». Luigi Bisignani è un altro, «illustre», intermediario coinvolto nella vicenda con un ruolo molto attivo nel «reclutare» Obi, che la giudice spiega essere stato uomo di Eni e non, come si è provato a far credere, portato dalla controparte nigeriana.

E anche la grande stampa si destò

Per il secondo Natale consecutivo – il rinvio a giudizio è datato 20 dicembre 2017 – l’Eni si ritrova sotto l’albero un regalo molto sgradito. Una sentenza che formalmente non condizionerà il processo in corso, ma è evidente non potrà essere ignorata dal collegio giudicante.

Fa piacere notare che finalmente anche tutta la stampa italiana, in buona parte fin qui poco attenta al «processo del secolo», si sia risvegliata da un torpore alquanto ingiustificato. Dopo tutto parliamo sempre della più grande e importante multinazionale italiana, ancora partecipata al 30 per cento dallo Stato…