Tangenti Eni in Nigeria. Tutti i “non so” del capo dell’anticorruzione

Nuova puntata del processo ad Eni per la tangente in Nigeria. Tocca a Michele De Rosa, capo dell’anticorruzione del Cane a sei zampe

Antonio Tricarico
La sede Eni a Roma
Antonio Tricarico
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Tanti “non sapevo” e “non conoscevo” hanno cadenzato il lungo interrogatorio di Michele De Rosa, capo dell’anticorruzione di Eni, nel corso dell’udienza di ieri del processo milanese ad Eni e Shell e ai suoi manager (che Valori segue dal suo inizio). L’accusa è quella di corruzione internazionale per l’acquisizione dell’oramai famosa licenza petrolifera Opl245 in Nigeria nell’aprile 2011.

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Tutto a mia insaputa

A suo dire, De Rosa avrebbe appreso del sofferto negoziato per l’Opl245 solo il 12 maggio 2010. All’epoca, sempre a suo dire, non conosceva l’intermediario Emeka Obi – già condannato a Milano lo scorso settembre in rito abbreviato a quattro anni di reclusione – né sapeva che la NAE, la controllata nigeriana di Eni, aveva siglato un accordo esclusivo proprio con Obi per negoziare con la Malabu, dell’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete, l’acquisto della licenza.

De Rosa sembra sapere poco della nota di due diligence sulla questione preparata dal manager di NAE, Ciro Pagano, e nemmeno il perché in scambi di mail di allora tra i manager del cane a sei zampe si ammetteva che «abbiamo accolto richieste di Obi non esattamente in linea con i nostri standard». Oltre all’insolita esclusiva a negoziare, Obi ricevette anche mezzo milione di dollari nel giugno 2010 in maniera alquanto insolita, ed anche di questo De Rosa ha negato di sapere.

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Le risposte date dalla struttura Eni ad un primo questionario predisposto dall’anticorruzione sulla controversa società Malabu erano state tranchant: «Alcuni azionisti sono stati pubblici ufficiali?» «No».«Alcuni azionisti sono stati condannati?»«No». Eppure il rapporto esterno commissionato dalla due diligence di Eni alla The Risk Advisory Group aveva già identificato in modo chiaro nel 2010 che “tutte le informazioni indicano che Dan Etete era il beneficiario ultimo della Malabu”. Nello stesso rapporto si parla di come lo stesso Etete avesse pagato per l’istruzione dei figli dell’allora Presidente della Nigeria Goodluck Jonathan. L’attivissimo Etete era stato condannato per riciclaggio di denaro in Francia già nel 2007, questione connessa all’altro grande scandalo di corruzione di Bonny Island. Va ricordato che, proprio per l’affare Bonny, Eni – tramite la Snamprogetti – aveva patteggiato nel 2010 negli Stati Uniti una condanna sospesa per due anni con la condizione che la società avrebbe dovuto rafforzare le sue procedure di anticorruzione. È proprio sotto questa condanna condizionale che Eni avrebbe corrotto nuovamente nel 2011, secondo le tesi della Procura di Milano, per ottenere l’Opl245. Insomma lupo, o cane, perderebbe il pelo, ma non il vizio.

Rischi reputazionali

Alla fine De Rosa ha confermato al pubblico ministero Sergio Spadaro quello che aveva messo per iscritto in alcune e-mail del novembre 2010 ai suoi colleghi: se ci fosse stata certezza che ci fosse Etete dietro la Malabu ci sarebbe stato un rischio di reputazione per l’Eni. Ma, dal momento che dal novembre 2010 si è negoziato tramite il governo nigeriano, e non più direttamente con la Malabu, allora per De Rosa il problema, almeno legalmente, era risolto.

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L’anticorruzione di Eni avrebbe “non saputo” che la Malabu di Etete da anni aveva pagato solo 2 milioni di signatory bonus dei 20 milioni dovuti. E De Rosa sostiene candidamente che anche nel marzo e nell’aprile 2011 quando si negoziavano gli accordi finali non sapeva che i soldi sarebbero poi finiti dal governo alla Malabu. Una posizione a dir poco singolare. A ridosso della firma sugli accordi De Rosa aveva richiesto i nomi di chi aveva partecipato agli incontri negoziali dell’ultima fase. Eppure il nome di Femi Akinmade, ex Eni, che era passato alla Malabu per negoziare proprio questo accordo non aveva sollevato nessuna red flag, come si dice in gergo anti-corruzione. Analogamente la presenza di Aliyu Abubakar, il famigerato “Mr. Corruption” nigeriano ad uno degli incontri nel novembre 2010 non poneva problemi a De Rosa e soci. Poco conta che l’Attorney General della Nigeria, Bayo Oyo, che nel 2006 aveva ridato la licenza alla Malabu facendo infuriare la Shell, fosse diventato poi un legale di Etete e sodali. Ancor meno conta che nel negoziato ci fosse un coinvolgimento del Air Marshall Gusau, ai vertici della sicurezza nigeriana. Più bandiere rosse sventolanti nella due diligence Opl245 che ad una manifestazione di nostalgici comunisti, si direbbe. In sintesi De Rosa ammette candidamente che pur se la due diligence non era stata completata, alla fine si decise di procedere con il deal, pur sapendo di non sapere davvero chi si celava dietro la Malabu.

La giustizia farà il suo corso, ma la giornata di ieri ha messo in luce uno spaccato quanto meno preoccupante sulle procedure anticorruzione di Eni al tempo dell’Opl245. Chi sa cosa penseranno oggi le autorità americane ad ascoltare i socratici “non sapevo” di De Rosa dopo che dal 2012 oltreoceano si erano detti soddisfatti dei progressi di Eni nel prevenire la corruzione.