«Draghi guarda al passato. Finanziare le imprese non cambia lo sviluppo»

Intervista all’economista Mario Pianta sulle molte ombre del piano europeo presentato da Mario Draghi

L'economista Mario Pianta © Scuola Normale Superiore

Più investimenti, finanziati con debito pubblico europeo, ma senza cambiare la logica di mercato e le scelte delle imprese che sono alla radice del lungo ristagno dell’Europa. Il piano «per la competitività» dell’Europa proposto dall’ex presidente della Banca centrale europea ed ex presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, non convince Mario Pianta, docente di Politica economica alla Scuola Normale Superiore di Firenze.

Secondo Draghi l’Europa vive una “crisi esistenziale” dalla quale può uscire soltanto con grandi investimenti. Perché siamo finiti in questa crisi?

È utile riflettere, come fa il piano Draghi, sulla traiettoria di sviluppo europea. Negli ultimi 20 anni, l’Europa non è cresciuta perché si è affidata alle decisioni delle grandi imprese, che non hanno fatto gli investimenti necessari – quello che il rapporto Draghi vorrebbe ora correggere. E perché ha fatto politiche sbagliate. Le politiche monetarie, anziché alimentare la crescita e l’occupazione, hanno favorito l’espansione della finanza e le sue logiche speculative. Le politiche fiscali sono state realizzate all’insegna dell’austerità, hanno impedito l’espansione della domanda, hanno costretto le economie europee a contenere la spesa pubblica e bloccato la crescita dei salari.

Ci sono state però numerose crisi da affrontare.

Dalle quali siamo usciti miracolosamente: prima la crisi finanziaria del 2008, poi quella dell’euro, quindi la pandemia e la crisi energetica e l’inflazione. E come siamo riusciti a cavarcela? Con interventi della politica, a partire dal famoso «whatever it takes» dello stesso Draghi che ha rovesciato la politica monetaria restrittiva imposta dall’ortodossia precedente. E dalla crisi della pandemia tutti i paesi europei sono usciti con grandi aumenti di spesa pubblica – grazie alla sospensione delle regole dell’austerità europea – che hanno portato ad aumenti tra il 10 e il 20% del rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo. Aumenti che il nuovo Patto di stabilità ora vuole cancellare, con il rischio di una nuova stagione di tagli e recessione.

Cosa non ha funzionato?

Quel modello di sviluppo è guidato dall’idea che lasciar liberi i mercati consente alle imprese di prendere le decisioni “giuste” su che che cosa si produce, con quali tecnologie e quale impiego di lavoro, a che prezzo, per quali destinazioni. Ma in questi vent’anni gli investimenti delle imprese sono sono stati totalmente inadeguati. Non è stata ricostruita la capacità produttiva colpita dalle crisi, non sono state avviate le trasformazioni digitali ed ecologiche. Le imprese hanno continuato con le produzioni del passato – pensiamo al mancato sviluppo di capacità produttive nelle auto elettriche in Europa – e hanno cercato i facili profitti che si possono ottenere spostando i capitali sui mercati azionari e finanziari.

Dunque una miopia delle imprese, che hanno preferito uno sguardo di breve termine?

Sì, e così oggi l’Europa oggi si trova in enorme ritardo sulle produzioni “green” rispetto agli Stati Uniti e, soprattutto, alla Cina. A ciò si aggiunge una concezione sbagliata della competitività. In un contesto in cui c’è uno stesso bene prodotto da tutti, e la domanda è data, è chiaro che si deve fare leva sul prezzo: chi produce a costi più bassi – magari con più automazione – vende di più.

Ma oggi gran parte dell’economia non funziona così. Le auto elettriche cinesi non sono competitive per il prezzo, ma perché hanno una tecnologia che quelle europee a motore termico non hanno. Nell’industria, nei servizi digitali, nell’economia verde oggi si scelgono i beni sulla base delle caratteristiche tecnologiche. E poi non esiste una domanda preesistente: il mercato nei settori emergenti, come nel caso delle nuove tecnologie green, va costruito. Ancora una volta pensiamo alle auto elettriche: per farle crescere servono infrastrutture, officine per le riparazioni, formazione di personale specializzato, colonnine di ricarica, regole pubbliche su come organizzare quel mercato.

Ci vuole una politica industriale di ampio respiro, insomma.

Esatto. Il problema non è la competitività, ma la capacità di espandere la capacità produttiva in nuove attività economiche “giuste”: sostenibili per il pianeta e capaci di valorizzare la conoscenza – e i salari – dei lavoratori. Il piano Draghi guarda all’indietro: si pone una domanda inappropriata e dà risposte illusorie.

Cosa c’è di buono nel piano Draghi?

L’ammissione del fatto che servono nuovi investimenti. Ed è fondamentale l’idea secondo cui questi investimenti devono essere finanziati da un debito comune europeo. Serve un’integrazione a livello comunitario in questo senso, com’era già avvenuto d’altra parte con il Next Generation Eu. Il problema è che tale scelta non deve accompagnarsi a una politica di austerità che costringa a tagliare la spesa pubblica nazionale. Le transizioni produttive non si possono fare con economie, redditi e consumi in recessione: servono politiche espansive.

Ma come si dovrebbero spendere i fondi raccolti dal debito europeo?

Draghi vuole darli alle imprese private. Non ha funzionato in passato – buona parte delle politiche tecnologiche e industriali di questi anni sono state realizzate con sussidi alle imprese, che non hanno risposto con innovazioni e sviluppi produttivi adeguati. Perché stavolta dovrebbero fare diversamente? Nel piano mancano soggetti pubblici capaci di guidare la politica industriale verso l’interesse pubblico anziché le convenienze private. Si può pensare ad agenzie pubbliche europee, a nuove imprese statali, a partecipazioni pubblico-privato, soggetti che siano in grado di intervenire per riempire i vuoti delle nostre capacità produttive. Pensiamo alle energie rinnovabili, dal fotovoltaico all’eolico, dove molti protagonisti sono già imprese a partecipazione pubblica. Pensiamo alle infrastrutture urbane e territoriali necessarie per la transizione ecologica. Pensiamo al vuoto europeo nel campo delle piattaforme digitali. I fondi europei dovrebbero essere vincolati a scelte produttive precise, e un ruolo chiave può essere svolto dalla domanda pubblica, nazionale ed europea.

Draghi sembra subordinare gli impegni ambientali e sociali alla necessità di garantire competitività. Rischiamo dei passi indietro?

Draghi interpreta anche la transizione ecologica esclusivamente in termini di mercato, quando la questione è molto più ampia. Non si tratta solo di fissare il prezzo del CO2 e i sussidi per attività verdi, e lasciar poi decidere imprese e consumatori. Occorre ripensare i confini tra le attività pubbliche e quelle private. È la politica che deve decidere da quali produzioni si deve uscire perché sono insostenibili – le energie fossili, il nucleare, le auto a motore a scoppio – e quali settori vanno sviluppati. Quando faccio una comunità energetica, non sto solo cambiando il modo di produrre energia elettrica, ma anche i rapporti tra imprese, consumatori, territori e poteri pubblici. Bisogna pensare in modo più ampio, aprire la strada a nuovi protagonisti di un’economia sostenibile. E lo stesso vale per la transizione digitale.

Molti studi dicono che la transizione sarà volano di crescita.

Se diventi leader nella produzione di un bene ambientalmente importante, tutto il mondo te lo comprerà.

Il piano Draghi propone grandi investimenti anche nella produzione di armi. Ci sono già state forti critiche.

Qui Draghi fa un grave errore. L’Europa è nata come progetto di pace dopo la seconda guerra mondiale. Fare dell’Europa una potenza nella produzione di armi cambierebbe la natura dell’integrazione europea. È ragionevole pensare a una maggior integrazione anche nel campo della Difesa, ma non a spese di uno sviluppo sostenibile e della spesa sociale. È paradossale che in un rapporto sulla competitività si dia cosi grande spazio a questo settore. Si darebbero fondi pubblici a pochissime grandi imprese per sviluppare e produrre nuove armi che sarebbero poi comprate dagli Stati. Dove sarebbe la logica dell’efficienza e della competitività in tutto questo? L’esperienza degli Stati Uniti ci ha insegnato che costruire un “complesso militare-industriale” fa male all’economia e alla pace. Il solo obiettivo qui sembra quello di alimentare la corsa al riarmo, che non farà altro che aggravare l’insicurezza internazionale. Ci serve un’Europa verde, non un’Europa grigio-verde.

Perché è così difficile immaginare un modello “giusto”?

Perché non si riesce a uscire dal paradigma neoliberista in cui tutto viene ricondotto a una logica di mercato, alla ricerca di guadagni di breve periodo – che vengano dalla finanza, dalle energie fossili o dalle armi – senza considerare la qualità sociale e ambientale di quanto si produce e si consuma. I risultati sono stati il lungo declino dell’Europa e dell’Italia, ma il paradigma resta difficile da scardinare. L’élite europea è figlia di quella visione del mondo. Nella politica sta pesando di più il bisogno di protezione di fronte all’incertezza che non la ricerca di un modello con meno disuguaglianze sociali e più sostenibilità ambientale.

Il piano Draghi ha possibilità concrete di essere attuato?

Quando Draghi era al vertice della BCE godeva di una certa autonomia. Stavolta i poteri sono nelle mani del Consiglio europeo – che riunisce i governi – e della Commissione, dove le posizioni spesso sono ancora più arretrate delle proposte di Draghi. In particolare, molti non vogliono sentir parlare di debito comune europeo. È difficile che faccia molta strada.