Oligopolio e-commerce: a 200 siti web il 95% del mercato italiano
Il commercio online concentrato in poche mani. GDO e piccoli esercenti i più a rischio. Anche per loro lacune: pochi i manager formati all'evoluzione digitale
Altro che “effetto Amazon“, l’e-commerce spaventa le aziende italiane per colpa di un management non all’altezza. Parola di Alice Morrone. Da 18 anni – cioè tra le prime in Italia – a occuparsi di commercio online e strategie di marketing digitale per diverse aziende, è oggi Head of E-commerce and Performance Marketing presso Thun, nota impresa di Bolzano specializzata in oggetti da collezione e da regalo. E riguardo la “psicosi” da e-commerce che, a partire dagli USA, si sta diffondendo dietro le vetrine del nostro Paese, non fa giri di parole in questo post sul suo profilo Linkedin.
Un post che leggerebbero di certo con apprensione i lavoratori di Trony, ad esempio, e di marchi retail – cioè di vendita al dettaglio – di cui qualche articolo si affretta a recitare il de profundis.
Manager 2.0: formati da chi?
«Il problema dell’e-commerce in Italia non è Amazon ma la resistenza al cambiamento da parte delle aziende, sia nella grande distribuzione organizzata che tra i piccoli negozi. […] Il tema vero è quello dell’asticella delle aspettative da parte dei consumatori, che si aspettano un’assistenza post vendita che risponda con WhatsApp in meno di 3 minuti, che vogliono tutto e lo vogliono subito. Che si aspettano che la GDO conosca le loro preferenze, e in base a ciò, e agli acquisti precedenti, personalizzi le offerte che propone loro».
Una rivoluzione digitale che non si può fermare: acquisti automatizzati e interfacce vocali, economie di scala tra locale e globale, pubblicità sempre più personalizzata, l’Asia come baricentro assoluto del mercato…
«Il nostro paese è in ritardo probabilmente di 4-5 anni sul commercio online americano, e forse qualcosa in più rispetto a quello britannico. Ma gli italiani sono comunque già prontissimi, è l’offerta che latita».
Così, mentre i volantini continuano ad assorbire l’80-90% del budget di molte imprese della nostra grande distribuzione organizzata, c’è da chiedersi dove investire per poter sfruttare il processo.
Secondo Morrone per prima cosa si deve puntare ad un «Change Management, cioè cambiare l’impostazione, la visione, “la testa” dei vecchi manager. Non c’è bisogno di investire in tecnologie, non serve introdurre un chatbot se poi questo strumento non viene integrato nei flussi di comunicazione aziendale e nessuno sa che esiste.
Avere l’app, il nuovo sito, il totem con touch screen nei punti vendita comporta investimenti che vengono spesso compiuti. Ma rimangono inutili se non c’è un vero e proprio accompagnamento della dirigenza delle aziende verso la comprensione delle opportunità del digitale, e non solo dell’e-commerce».
Il “tasso di conversione” misura il rapporto tra visite e acquisti conclusi in un sito web di commercio elettronico. In quelli della grande distribuzione organizzata, che hanno anche dei negozi fisici, può andare dallo 0,2% al 2%, per quelli più efficienti.
D’altra parte esiste senz’altro un problema di formazione. «Non esistono scuole di e-commerce ad alto livello» rivela Morrone. «Ci sono esperienze medio-piccole limitatamente all’area milanese. Ma a livello nazionale il panorama è piuttosto desolante. Anche questo è il motivo per cui vengono dedicati all’e-commerce persone che non ne hanno le competenze. Il primo tema è perciò formare gli e-commerce manager ad accompagnare le imprese».
Eppure l’Italia online vola
Il quadro presenta diverse criticità, quindi. Ma i dati del commercio elettronico in Italia sono comunque in netta crescita da anni. Per tutti i settori e a due cifre: abbigliamento +28%, editoria +22%, arredamendto e articoli casa +31%. Per un valore di 23,6 miliardi di euro (ovvero poco meno del 6% del mercato). E il 2017 ha prodotto una grande novità: per la prima volta l’ammontare attribuito alle vendite elettroniche di prodotti ha superato quello di servizi.
A certificarlo sono i rapporti dell’Osservatorio B2c – Business to consumer – del Politecnico di Milano, secondo cui quello dei servizi resta tuttavia il tipo di commercio online più diffuso, con una soglia di penetrazione intorno al 9% di media, contro il 4% dei prodotti.
C’è settore e settore
Ma ci sono prodotti e prodotti. Un esempio? Ogni 100 acquisti retail di elettronica e informatica di consumo più di 20 sono conclusi online. Ma nella Grande distribuzione organizzata, e per il settore alimentare in primis, assistiamo a un altro film. L’incidenza degli acquisti online di food & grocering, o comunque di tutto quanto fa parte della spesa quotidiana, non supera lo 0,5% del totale.
«Molti soggetti retailer italiani si sono mossi con ritardo» sottolinea Riccardo Mangiaracina, responsabile scientifico dell’Osservatorio. «Ci sono settori ancora completamente scoperti, ad esempio il grocering (cioè tipicamente i supermercati, ndr). Ma se guardo agli webshoppers, cioè coloro che hanno fatto almeno un ordine online nel 2017 in italia, si parla di 22 milioni di persone. Circa la metà di coloro i quali utilizzano internet. La diffusione del fenomeno è quindi decisamente ampia».
Se i piccoli negozi non ridono…
E le conseguenze sui negozi si fa sentire ogni giorno di più. A partire da quelli di vicinato. Sono loro i primi ad aver patito la crisi dei consumi e la smaterializzazione di alcuni mercati (quello della musica, ad esempio). E ora subiscono la concorrenza della grande distribuzione, più che dell’e-commerce. Non a caso i numeri sono impietosi. In Italia ci sono circa 500mila locali commerciali vuoti. Un vero processo di desertificazione.
È pur vero che il commercio online, specie nel campo della ristorazione (con tutte le perplessità connesse al calvario dei riders in tema di diritti e lavoro), «ha offerto a molti piccoli l’occasione di avere una vetrina, su Amazon o su altre piattaforme», ci dice Valerio Maccari, responsabile Relazioni esterne di Confesercenti. Ma questo non deve far perdere di vista una caratteristica del commercio online che sembra lasciare poche speranze ai “piccoli”.
«Il commercio elettronico ha una struttura molto concentrata, con i primi 200 siti di vendite online che si accaparrano circa il 95% delle vendite, mentre agli altri 17 mila non rimane che spartirsi il restante 5%».
…i supermercati piangono
L’effetto maggiore di questa concentrazione si avverte nella grande distribuzione, che non ha dalla sua il vantaggio della prossimità dei piccoli negozi.
Rispondere al solito colosso Amazon, che lancia servizi di recapito in un tempo sempre minore (a Milano in giornata), per molti altri è quasi impossibile. «Allestire una spesa mediamente composta da 50 o 60 articoli e consegnarla a domicilio entro una fascia oraria – normalmente di circa due ore – decisa dal cliente può mettere a repentaglio la sostenibilità economica del servizio», aggiunge Mangiaracina.
Per aggirare l’ostacolo, c’è chi prova a sviluppare economie di scala facendo rete. È il caso di Coopalleanza 3.0 che vende fresco e freschissimo attraverso una piattaforma digitale su tutta l’area metropolitana di Roma. Oppure chi cerca di superare l’impasse attraverso una collaborazione con i grandi operatori di marketplace internazionali. Come Unes con i suoi prodotti a marchio e NaturaSì, che hanno sviluppato una partnership con Amazon. Una sorta di “patto col diavolo“, potrebbe pensare qualcuno…
Una difficoltà percepita da Federdistribuzione, l’associazione che riunisce i soggetti della cosiddetta “distribuzione moderna organizzata”. E che traspare anche dalle parole del suo addetto stampa, Stefano Crippa: «è molto importante riuscire a coniugare la vendita offline con quella online. Capire che non si tratta semplicemente di aggiungere un canale di vendita diverso da quello fisico, ma che entrambi i canali devono essere gestiti in maniera integrata».
Gli acquisti si spostano sui beni durevoli
Crippa ammette peraltro la necessità di investire su professionalità che non erano tipiche del settore fino a ieri. Ed evidenzia poi un altro problema: la torta complessiva del mercato si è ridotta complessivamente. Perché «mentre il commercio elettronico di prodotti si è sostanzialmente triplicato negli ultimi 4-5 anni, le famiglie stanno orientando i propri consumi soprattutto sui beni durevoli, ad esempio l’auto, o sui servizi e il mondo della ristorazione…».
A ciò si aggiunge che l’alimentare, core business della GDO, è ancora una voce troppo marginale della spesa online, sebbene «proprio gli acquisti online nel settore alimentare stanno crescendo più degli altri. Il 40% nel 2017».