Ancora troppe ombre sul mercato dei carbon credit

Sempre più le aziende compensano le emissioni acquistando crediti di CO2. Ma il mercato è "inquinato" e poco trasparente

Il mercato delle emissioni di CO2 stanno diventando una minaccia per gli investimenti ESG © Toa55/iStockPhoto

La compensazione delle emissioni di CO2 attraverso i carbon credit è la strada scelta dalla maggior parte delle grandi aziende per centrare i loro obiettivi climatici. Ben due terzi delle imprese che hanno annunciato la volontà di azzerare le emissioni nette, infatti, hanno privilegiato tale opzione. Lo rivela un’analisi di Carbon Brief durata 5 anni. Il mercato dei crediti di emissioni, però, è ancora troppo controverso ed è il settore dove si annida maggiormente il rischio di greenwashing

I casi della svizzera South Pole e dell’americana Verra

Qualche esempio? Prendiamo i due enti certificatori più importanti del mondo, il cui ruolo è quello di garantire quanto “vale” in termini di emissioni un progetto di compensazione. Stiamo parlando della svizzera South Pole e della statunitense Verra. South Pole è accusata dalla piattaforma giornalistica Follow the Money di aver certificato progetti per British Petroleum e Spotify i cui crediti provengono dai campi di cotone della regione cinese dello Xinjang. Dove i rischi di ricorso al lavoro forzato sono particolarmente alti 

Verra invece è stata oggetto di un’accurata inchiesta da parte del settimanale Die Zeit, i cui giornalisti hanno raccontato che addirittura il 94% dei crediti di compensazione garantiti dall’azienda sono in realtà “crediti fantasma”. Cioè privi di effetti sul clima. Non solo: la società avrebbe anche sovrastimato nettamente alcuni dati. E si tratta solo di alcune delle critiche che hanno colpito i due enti.

Enti certificatori nel mirino delle inchieste giornalistiche

Non è la prima volta che South Pole finisce nel mirino di Follow the Money. A fine gennaio 2023, i giornalisti olandesi si sono concentrati sul progetto di piantumazione nella foresta di Kariba, nello Zimbabwe. Tra il 2011 e il 2021, South Pole ha venduto 27 milioni di tonnellate di crediti di CO2 (quasi sette volte le emissioni annuali dell’intera città di Amsterdam) in più rispetto a quanto effettivamente prodotto dal progetto, ad aziende quali Gucci, Volkswagen, McKinsey e alla compagnia energetica olandese Greenchoice. Tali società, quindi, hanno potuto contare su una riduzione delle emissioni che nella realtà non c’è stata.

Verra, invece, è nel mirino per casi di molestie sessuali. L’organizzazione SOMO ha raccolto diverse interviste, più di trenta, ai lavoratori coinvolti nel progetto di riforestazione Kasigau Corridor REDD+ Project (conosciuto semplicemente come “Kasigau”), situato nel Kenya sud-orientale, fondato e gestito dalla società statunitense Wildlife Works, i cui crediti sono stati venduti a Netflix, McKinsey, Microsoft e Shell. Si tratta di uno dei progetti più importanti e longevi a livello globale. Ampiamente apprezzato per il modo in cui promuove lo sviluppo locale e l’emancipazione di donne e giovani. Ma è proprio a danno di queste categorie che si sarebbero consumati casi di molestie e abusi sessuali.

L’analisi di Carbon Brief citata in apertura si è concentrata su 34 aziende che da sole hanno utilizzato 38 milioni di tonnellate di anidride carbonica nel periodo 2020-2022, equivalenti alle emissioni annuali di Etiopia e Kenya messe insieme. Dall’analisi si evince che i principali utilizzatori di crediti di CO2 sono stati Shell (9,9 milioni di unità), Volkswagen (9,6 milioni) e Chevron (6,0 milioni). In particolare, Chevron ha acquistato quasi tutti i crediti provenienti dalla Colombia: secondo un’inchiesta della ong Corporate Accountability, il 93 per cento di queste compensazioni è fasullo.

Una forma di “neocolonialismo” denunciano molti movimenti

Questo rapporto tra l’americana Chevron e la Colombia getta tra l’altro uno sguardo più generale sul rapporto che i Paesi ricchi hanno con i Paesi del Sud del mondo. Generalmente, infatti, i primi comprano crediti da progetti ambientati nei Paesi più poveri. Molti movimenti accusano i Paesi industrializzati di “neocolonialismo”. Ciò in quanto ampie porzioni di terreno nel Sud del mondo vengono di fatto “bloccate” con l’obiettivo di assorbire la CO2 prodotta nel nord. L’accusa è anche di danneggiare le popolazioni locali, in particolare quelle indigene. Addirittura nel 70% dei rapporti esaminati da Carbon Brief sono state rinvenute prove di danni alle popolazioni autoctone come quelle di Perù, Kenya e Zimbabwe. 

Ma progetti di compensazione ne esistono anche nel nord del mondo. Dei 2 milioni di crediti generati nei Paesi sviluppati, due terzi provengono da progetti negli Stati Uniti. Questi sono stati quasi tutti venduti a società con sede nello stesso Paese, come Microsoft e JP Morgan Chase. Anche qui non mancano le accuse. In un’inchiesta del 2020, Bloomberg accusa GreenTrees – società che fornisce il 16% dei crediti statunitensi a clienti come Shell, Microsoft, Disney e molti altri – di riutilizzare anche crediti già conteggiati in passato. Che quindi non potevano essere venduti di nuovo. O di gonfiare i crediti nuovi.

L’effettiva riduzione delle emissioni è trascurabile

In questo quadro di interpretazione, è ormai chiaro a tutti che il mercato dei crediti di CO2 (carbon offsets and credits) non funziona, è controverso e, in certi casi, per nulla etico. Non solo, ma in concreto, gli effetti sulla riduzione delle emissioni sono alquanto trascurabili. Uno studio in corso di pubblicazione stima che solo il 12% delle compensazioni vendute si traduce in «riduzioni reali delle emissioni».

Eppure, negli ultimi anni si è assistito a un’esplosione, nelle principali economie e imprese che cercano di “legittimare” le loro attività inquinanti pagando per ridurre le emissioni altrove. In totale, 146 milioni di carbon credit sono stati utilizzati nel 2022, più del doppio del volume di appena tre anni prima. 

Una situazione deleteria per il clima della Terra. E che, quando non lo è, troppo spesso rivela ombre dal punto di vista sociale o della governance. A conferma del fatto che la transizione può essere considerata sostenibile solamente se a “tenere” sono tutte le gambe dell’ESG (ambientali, sociali e di governance).