I Paesi Nato scelgono la militarizzazione. Ma le armi sono un cattivo affare
Aumentando senza sosta le spese militari, i Paesi Nato fanno una scelta miope. Anche per l'economia: lo dimostra un report di Greenpeace
I Paesi dell’Unione europea membri della Nato si stanno armando. E lo fanno con sempre maggiore convinzione. Nel 2014 spendevano 145 miliardi di euro per le armi; per il 2023 la previsione (calcolata a prezzi costanti 2015) è di 215 miliardi. Per avere un termine di paragone, è più del prodotto interno lordo (PIL) annuo di uno stato come il Portogallo. E corrisponde a un aumento del 48% nell’arco di un decennio, trainato anche dalla guerra in Ucraina. A conti fatti, dunque, investono in armi l’1,8% del proprio PIL, sfiorando quindi la soglia del 2% auspicata dagli Stati Uniti e dalla Naro stessa.
Che non sia un buon affare per la pace e per i diritti sembra abbastanza scontato. Ma lo sarà almeno per l’economia? La risposta è no. Ed è una risposta fatta di numeri. Li mette nero su bianco il rapporto “Arming Europe”, commissionato dagli uffici nazionali di Greenpeace Italia, Germania e Spagna.
Una posizione paradossale
Per i ministri della Difesa europei le armi sono «sostenibili»
In un documento congiunto i ministri della Difesa europei chiedono apertamente che gli investimenti nelle armi siano considerati sostenibili
Quanto spendono per le armi i Paesi Nato (Italia compresa)
Partiamo dai numeri, dunque. Tra il 2013 e il 2023, la Germania ha incrementato le proprie spese militari da 36 a 51 miliardi di euro, l’Italia da 20 a 26 miliardi e la Spagna da 10 a 15 miliardi. Il balzo in avanti è pari rispettivamente al 42%, al 30% e al 50%.
Sono parecchie le voci che compongono le spese militari: personale militare e civile, armi e ricerca&sviluppo, infrastrutture, le operazioni e manutenzione. Nei Paesi dell’Unione europea membri della NATO, la fetta più consistente resta quella del personale, seppure in calo dal 59 al 41% del totale nell’arco di un decennio.
A trainare l’impennata degli ultimi anni, in compenso, è l’acquisto di nuove armi ed equipaggiamenti militari. Nel solo 2023, i Paesi dell’Unione europea membri della Nato hanno speso 64,6 miliardi di euro per fare incetta di armi, il +270% rispetto a dieci anni prima; la fetta della Germania ammonta a 13 miliardi, quella dell’Italia a 5,9 miliardi (erano 2,5 dieci anni prima) e quella della Spagna a 4,3 miliardi. Le importazioni nell’Unione europea sono triplicate tra il 2018 e il 2022 e arrivano per la metà dagli Stati Uniti.
L’economia è stagnante, ma le risorse per le armi si trovano sempre
Tutto questo accadeva mentre le condizioni generali dell’economia non erano poi così floride. Guardando ai dati aggregati degli Stati dell’Unione europea membri della Nato, il Pil in termini reali è cresciuto del 12% tra il 2013 e il 2023, cioè poco più dell’1% all’anno. L’occupazione, invece, ha segnato un aumento del 9%. Le spese militari in compenso facevano un balzo in avanti del 46%, correndo quattro volte più veloce rispetto al reddito nazionale. Come logica conseguenza, è cresciuto anche il loro peso percentuale sul Pil: nel 2013 si attestava sull’1,4% e nel 2023 raggiunge l’1,8%, sfiorando quindi la soglia del 2%.
E la spesa pubblica? Sempre tra il 2013 e il 2023, e sempre negli Stati europei membri della Nato, è cresciuta del 20% in termini reali. Più per finanziare la sanità (+34%) che per scuola e ambiente (rispettivamente +12% e +10%). Nulla a che vedere con il +46% delle spese militari. Un divario che diventa ancora più vertiginoso in Italia, dove la spesa pubblica complessiva è salita appena del 13% nel decennio, con incrementi particolarmente modesti in materia di educazione e ambiente (+3% e +6%). Intanto, però, le spese militari crescevano del 26%.
Perché ci sono investimenti molto più fruttuosi di quelli nelle armi
Qualcuno potrebbe obiettare che investire risorse nelle armi significhi pur sempre dare stimolo all’economia. Per verificarlo, i ricercatori di Greenpeace hanno adottato una metodologia che si basa sul sistema input-output. Semplificando, si suddivide un’economia in una serie di settori produttivi, ciascuno dei quali è sia acquirente sia venditore di beni e servizi. Lo scopo è quello di capire quanto una variazione della domanda all’interno di un singolo settore incida sull’economia nel suo insieme.
I risultati? Se l’Italia spende un miliardo di euro per l’acquisto di armi, li spende soprattutto per importarle. L’impatto sulla produzione interna, dunque, è di appena 741 milioni di euro, con la creazione di 3mila nuovi posti di lavoro. Se invece spende quello stesso miliardo nella protezione ambientale, l’impatto positivo sale a 1,9 miliardi, con quasi 10mila nuovi posti di lavoro. Una scelta che dunque si rivela nettamente più vantaggiosa. In tutti i sensi.
«L’ultimo decennio è stato drammaticamente segnato dall’aggravarsi della crisi climatica ed economica, da una pandemia e da nuovi conflitti, ma l’unica risposta del nostro governo è stata quella di aumentare la spesa militare», conclude Sofia Basso, Research Campaigner “Climate for Peace” di Greenpeace Italia. Anche per questo, Greenpeace chiede al governo italiano di rinunciare all’obiettivo Nato di portare le spese militari al 2% del PIL, di tassare gli extra profitti delle aziende della difesa e di reinvestire quelle risorse nella lotta alla povertà e alla crisi climatica.