Impoverita dai paradisi fiscali, l’Italia perde 10 miliardi di euro l’anno
Uno studio CGIA di Mestre ha calcolato quanto sfugge ogni anno all’erario per colpa dei paradisi fiscali, di cui l’Europa è assai ricca
Che balzo in avanti potrebbe fare il nostro Paese nella sanità, nell’istruzione, nei servizi sociali o nelle politiche di contrasto alla crisi climatica – solo per fare alcuni esempi -, se lo Stato avesse 10 miliardi di euro in più da spendere ogni anno? Purtroppo non li ha. Perché questi soldi vengono fagocitati dai paradisi fiscali. O meglio, da chi fra i nostri concittadini vi trasferisce ricchezze e profitti. Giocando a nascondino col fisco, sulle spalle di tutti gli altri.
Principato di Monaco mon amour
Il dato emerge da uno studio della CGIA di Mestre (Associazione Artigiani e Piccole Imprese) che riprende un rapporto del World Inequality Lab. E mette nel mirino da una parte le persone fisiche, dall’altra le imprese. Quanto alle prime, si calcola che circa 8mila italiani, tra cui imprenditori, sportivi e celebrità, abbiano spostato la loro residenza nel Principato di Monaco per evitare le tasse. Quanto alle seconde, la preferenza è andata invece al Lussemburgo. Scelto da banche, fondi d’investimento, compagnie di assicurazione e multinazionali italiane ed estere.
Alla cifra dei 10 miliardi di euro che sfuggono all’erario ogni anno si arriva mettendo insieme tutte le pratiche che i super-ricchi e i grandi gruppi industriali pongono in essere rifugiandosi nei paradisi fiscali. Ricordando che fra le caratteristiche dei paradiso fiscale, sottolinea lo studio rifacendosi ai criteri con cui l’OCSE li inserisce nella sua black list, vi sono l’assenza di imposte sui redditi per le imprese costituite sui propri territori. L’assenza dell’obbligo, per tali società, di svolgere un’attività d’impresa effettiva. La mancanza dei meccanismi di scambio delle informazioni fiscali che aiuterebbero invece gli altri Paesi a combattere evasione ed elusione fiscale su scala internazionale.
La patria dei paradisi fiscali? L’Europa del «fate i compiti a casa»
Sbaglierebbe però, e di grosso, chi pensasse che il fenomeno dei paradisi fiscali riguardi principalmente terre lontane ed esotiche. Un’idea che chissà come mai abbiamo un po’ tutti. Forse perché quando si parla di paradiso la mente corre subito all’immagine dell’atollo sperduto nel bel mezzo dell’oceano. L’evidenza emersa dallo studio, infatti, dice che la patria dei paradisi fiscali è l’Europa. Il Principato di Monaco, tanto amato dai super-ricchi italiani, il Granducato del Lussemburgo, il Liechtenstein e le Isole del Canale (Jersey e Guernsey, nel canale della Manica, che tecnicamente sono dipendenze della Corona britannica ma non fanno parte del Regno Unito) sono i primi quattro paradisi fiscali del mondo. Le Bermuda seguono al quinto posto, primo paradiso fiscale extra-europeo.
In altre parole: «L’Europa è il più grande paradiso fiscale del mondo». Come racconta in modo iper-dettagliato un libro di recente pubblicazione di Angelo Mincuzzi: “Europa parassita. Come i paradisi fiscali dell’Unione europea ci rendono tutti più poveri” (Chiarelettere, 2024). Fa specie, come minimo, che sia proprio la stessa Europa che poi chiede – per non dire impone – agli Stati membri di fare i compiti a casa, di tenere i conti in ordine e di non vivere al di sopra delle proprie possibilità. Si vede che vale solo per persone e aziende comuni. Non per chi può permettersi di fare “shopping” tra trattati e leggi fiscali di mezzo mondo. Per scegliere dove occultare meglio redditi e ricchezze di vario genere.
Tasse e multinazionali, un rapporto difficile
Sono le multinazionali gli elusori, così li chiama lo studio di CGIA di Mestre, a cui viene più di tutti attribuita la colpa del fatto che, se si restringe la base imponibile, siamo tutti più poveri. Anche perché queste aziende, quando operano nel nostro Paese, da un lato fruiscono delle grandi infrastrutture nazionali materiali (strade, ferrovie), immateriali (reti informatiche) e sociali (giustizia, scuola, università) – per non parlare di quando ricevono agevolazioni o incentivi pubblici -, dall’altro però non contribuiscono con le tasse alle spese che quelle infrastrutture richiedono per essere realizzate e gestite. I dati dell’Area Studi di Mediobanca (anno 2022) dicono che le società controllate dalle prime 25 multinazionali del web presenti in Italia hanno fatturato oltre 9 miliardi di euro. Ma hanno versato imposte all’erario per soli 206 milioni di euro.
Per fortuna qualcosina si sta muovendo nella giusta direzione. La Commissione europea ha adottato un regolamento che impone alle multinazionali europee (con fatturato superiore a 750 milioni di euro) un reporting fiscale più preciso. E soprattutto standardizzato, e quindi confrontabile. Cosa che dovrebbe aiutare i singoli Stati membri nella lotta contro le cosiddette pratiche di “ottimizzazione fiscale”. A livello internazionale è stata introdotta l’anno scorso la Global Minimum Tax (con un’aliquota del 15% sulle multinazionali). Ma secondo il Servizio Bilancio dello Stato della Camera, i soldi che entreranno in tasca all’erario si prevedono contenuti. Circa 380 milioni di euro nel 2025, con una stima di poter arrivare a 500 milioni di euro nel lontano 2033. È sicuramente troppo poco. Ma almeno, per (iniziare a) far pagare le giuste tasse a tutti, non è mai troppo tardi.