Ricchi e multinazionali, mille miliardi di profitti nei paradisi fiscali

Secondo in rapporto dell'Eu Tax Observatory, il 35% dei profitti delle grandi aziende è ancora nascosto nei paradisi fiscali

Una manifestazione contro i paradisi fiscali © Ryan Morrison/Flickr

Si può e si deve fare di meglio. Questa è la conclusione del primo studio sulla lotta contro l’evasione fiscale pubblicato di recente dall’Eu Tax Observatory, ente con sede a Parigi nato nel 2021 e diretto dall’economista Gabriel Zucman, allievo di Thomas Piketty, autore di The Triumph of Injustice, atto d’accusa contro lo smodato accumulo di capitali che sfugge alle maglie della tassazione. Si può fare di meglio, perché salta subito all’occhio, dalle conclusioni del rapporto, che una quota significativa e persistente degli utili delle multinazionali continua a essere trasferita nei paradisi fiscali

In breve: rimane alto l’ammontare di profitti che viene spostato nelle giurisdizioni nelle quali è possibile pagare tasse bassissime (se non nulle). La stima è di 1.000 miliardi di dollari per il 2022: si tratta dell’equivalente del 35% di tutti gli utili contabilizzati dalle multinazionali al di fuori del Paese in cui hanno sede. Le perdite in termini di gettito fiscale proveniente dalle società causate da questo spostamento sono significative, l’equivalente di quasi il 10% delle imposte societarie raccolte a livello globale. Le multinazionali statunitensi sono responsabili di circa il 40% del profit shifting a livello globale e i Paesi dell’Europa continentale
sembrano essere i più colpiti da questa evasione.

Il livello di profit shifting da parte delle società multinazionali è esploso e rimane elevato © Eu Tax Observatory

Diminuisce il ricorso ai paradisi fiscali, ma diminuiscono anche le tasse per i ricchi

L’evasione fiscale è in diminuzione o in aumento a livello globale? Stanno emergendo nuovi problemi e, in caso affermativo, quali sono? Queste domande sono importantissime in un contesto di crescente disuguaglianza a livello di reddito e di patrimonio, di elevato debito pubblico e di necessità significative di entrate per i governi al fine di affrontare i cambiamenti climatici e di finanziare l’assistenza sanitaria, l’istruzione e le infrastrutture pubbliche.

Intanto, negli ultimi dieci anni, i governi hanno lanciato iniziative con l’obiettivo di limitare l’evasione fiscale internazionale e il ricorso ai paradisi fiscali. «Le azioni portate avanti», è scritto nel rapporto, «includono la creazione di una nuova forma di cooperazione internazionale, ritenuta per molto tempo utopica, lo scambio automatico e multilaterale di informazioni bancarie in vigore dal 2017 e applicato da più di 100 Paesi nel 2023, e un accordo internazionale di riferimento su un’imposta minima globale da applicare alle società multinazionali, approvato da più di 140 Paesi e territori nel 2021».

Ora il rapporto ci fornisce informazioni sugli effetti di queste nuove policy. C’è qualche passo avanti e qualche peggioramento: «Innanzitutto, l’evasione fiscale offshore da parte di individui facoltosi si è ridotta sensibilmente. Grazie allo scambio automatico di informazioni bancarie, stimiamo che l’evasione fiscale offshore sia diminuita di circa tre volte negli ultimi dieci anni. Questo successo dimostra che è possibile compiere rapidi progressi contro l’evasione fiscale se esiste una volontà politica in tal senso».

Si tratta indubbiamente di una buona notizia. Tuttavia, «la misura dell’imposta minima globale del 15% sulle società multinazionali, che aveva suscitato grandi speranze nel 2021, è stata drasticamente indebolita. Se inizialmente ci si aspettava che avrebbe fatto aumentare il gettito fiscale globale proveniente dalle imposte sulle società di quasi il 10%, una lista crescente di scappatoie ha dimezzato il gettito previsto».  In particolare, molti individui, che erano soliti nascondere attività finanziarie in banche offshore, hanno sfruttato queste scappatoie spostando le loro attività su asset non coperti da controlli rigorosi, come gli immobili.

E poi, l’evasione fiscale «avviene sempre più spesso a livello nazionale». Che significa questo? Che i miliardari non hanno bisogno necessariamente di uscire dalle frontiere del proprio Paese per detassare i propri redditi. In media, un miliardario ha aliquote fiscali effettive pari allo 0% – 0,5% del proprio reddito, a causa del frequente utilizzo di società di comodo per evitare la tassazione sul reddito. Finora, non è stato fatto alcun tentativo serio per affrontare questa situazione, «che rischia di minare l’accettabilità sociale dei sistemi fiscali in vigore». 

Tassare di più i miliardari è questione di equità

Per questo, la riforma proposta dell’osservatorio riguarda proprio quest’ultimo punto: una tassa minima sul patrimonio dei miliardari. Se si applicasse un 2% a livello globale sui patrimoni dei meno di 3.000 miliardari presenti nel mondo, si avrebbero 250 miliardi di dollari di ricavi, stima Zucman. Per dare un’idea degli ordini di grandezza, si stima che i Paesi in via di sviluppo abbiano bisogno di 500 miliardi di dollari all’anno di introiti pubblici aggiuntivi per affrontare le sfide legate al riscaldamento globale, esigenze che potrebbero quindi essere pienamente soddisfate da questa riforma, proposta dell’Eu Tax Observatory. Inoltre, l’osservatorio propone di istituire meccanismi per tassare le persone ad alto patrimonio che hanno risieduto a lungo in un Paese e che scelgono di trasferirsi in un altro Paese a bassa tassazione

Insomma, serve subito una nuova tassazione, equa, stringente e non aggirabile, sui più ricchi. L’ideale sarebbe introdurla a livello globale. Ma, nell’attesa, i singoli Paesi potrebbero iniziare a muoversi da soli. Ciò potrebbe causare un effetto a catena. D’altronde Warren Buffet o Bill Gates negli Stati Uniti si sono già dichiarati favorevoli a misure del genere.

In un contesto di disuguaglianze sempre più forti, la necessità di aumentare le entrate fiscali è enorme. Perché, come dice il rapporto, l’evasione fiscale è una scelta politica. Quindi può, e deve, essere cambiata.