Il paradosso della moda usata: perché non riduce davvero i consumi

L’usato cresce, ma anche i consumi: il mercato second hand spinge nuovi acquisti e non riduce davvero l’impatto della moda

© Shanna Camilleri/Unsplash

Interno giorno. Una ragazza, che chiameremo Sofia, circa 25 anni, è sdraiata sul divano di casa. È intenta a guardare lo schermo del telefonino dove scorre il feed di Vinted. Nel carrello ha già tre maglioni a 15 euro l’uno. «È usato, quindi va bene», pensa. Il senso di colpa per l’ennesimo acquisto si dissolve. Anzi, sente di fare la cosa giusta: sta salvando vestiti dalla discarica, no? Il martedì successivo, durante la pausa pranzo, cede a quella gonna di Zara vista in vetrina. Costo: 25 euro. «Me la merito», si dice. «Ultimamente ho comprato solo usato».

Sofia non lo sa, ma sta sperimentando sulla propria pelle quello che gli psicologi chiamano moral licensing: un meccanismo per cui un’azione percepita come etica ci autorizza, inconsciamente, a comportamenti meno virtuosi. È come concedersi un dolce perché si è andati in palestra, o usare di più l’automobile perché è un modello ibrido. Nel caso della moda, funziona così: compro usato (bene) → mi sento sostenibile → posso permettermi di comprare anche nuovo. Il risultato? Un guardaroba sempre più pieno e un Pianeta sempre più caldo.

Il paradosso del mercato dell’usato nella moda

Uno studio pubblicato a ottobre su Nature da ricercatori di Yale e Bar-Ilan University ha analizzato i comportamenti di 1.009 consumatori americani, incrociando acquisti, smaltimenti e atteggiamenti verso la sostenibilità. I risultati ribaltano la narrativa consolatoria che circonda Vinted, Wallapop e, in generale, il mondo dell’usato.

Il dato chiave è netto e spiazzante: esiste una correlazione positiva significativa tra quanto si spende in abiti nuovi e quanto in abiti usati. In altre parole, chi compra molto nuovo compra anche molto usato. I due mercati non si sostituiscono, si sommano. «Contrariamente alle aspettative», scrivono gli autori, «la partecipazione al mercato secondario non riduce il consumo complessivo, ma lo sostiene o addirittura lo amplifica».

I numeri raccontano una storia poco rassicurante. Il 69% del campione ha acquistato seconda mano almeno una volta. Bene, verrebbe da dire. Ma il 40% possiede vestiti mai indossati. Il 37,9% butta capi entro un anno dall’acquisto, il 14,2% addirittura entro un mese. Un quarto degli intervistati scarta vestiti ancora in buone condizioni. Tra il 2020 e il 2024, mentre le donazioni aumentavano del 37%, gli acquisti online di nuovo crescevano del 38%. Gli acquisti da giganti dell’ultra-fast fashion come Shein e Temu sono saliti del 24,6%.

Chi compra usato compra anche nuovo: due profili di consumatori

L’analisi ha identificato due gruppi distinti di consumatori. Il primo, il 59% del campione, è composto da consumatori ad alto volume: comprano frequentemente sia nuovo che usato, tengono i capi per poco tempo, fanno molti resi. Sono prevalentemente giovani, studenti o lavoratori, con redditi sotto i 50mila dollari annui. Paradossalmente, hanno minore conoscenza della sostenibilità, ma sono maggiormente attivi nei mercati dell’usato.

Il secondo gruppo, il 41%, consuma meno ma spende di più per capo. Sono persone più mature, spesso pensionate, più informate sull’impatto ambientale della moda. Eppure anche loro mostrano un cortocircuito: pur sapendo, sono meno inclini a rivendere i propri vestiti, preferendo buttarli o donarli.

Lo scollamento tra conoscenza e azione attraversa tutti i dati. I giovani tra 18 e 24 anni hanno il tasso più alto di acquisti seconda mano (79%, contro il 57% degli over 65), ma sono anche quelli che accumulano di più capi mai indossati. Le donne dimostrano maggiore consapevolezza ambientale e partecipano più attivamente a pratiche di riuso, ma proprio per questo consumano di più e generano un’impronta ecologica superiore a quella degli uomini.

Consapevolezza ambientale e consumismo: quando sapere non cambia i comportamenti

Il dato forse più inquietante dello studio riguarda la relazione tra conoscenza e comportamento. Ci aspetteremmo che chi sa di più agisca meglio. Invece emerge una correlazione negativa tra conoscenza degli impatti ambientali della moda e comportamenti sostenibili. Piccola, ma statisticamente significativa: chi è più informato spesso consuma di più.

«Questi risultati sfidano le convinzioni tradizionali sulla consapevolezza ambientale», commentano i ricercatori. Il meccanismo è subdolo: la conoscenza crea l’illusione di controllo. Se so che Shein inquina, comprare su Vinted mi fa sentire dalla parte giusta. Questa sensazione di virtuosismo, però, può trasformarsi in una licenza psicologica per acquisti aggiuntivi. È il moral licensing su scala di massa.

C’è poi l’effetto rimbalzo economico: comprare usato costa meno, quindi posso permettermi di comprare di più. I soldi che Sofia ha risparmiato sui tre maglioni finanziano la gonna nuova. Il risparmio non si traduce in meno consumi, ma in più consumi totali. Le piattaforme, con la loro interfaccia da shopping compulsivo, i feed infiniti, le notifiche push («Qualcuno ha messo like al tuo articolo!»), replicano esattamente le logiche della fast fashion che dichiarano di combattere.

In Italia i dati raccolti da iVox per la Clean Clothes Campaign confermano quanto emerge dalla ricerca statunitense: il 71% degli intervistati sa che il settore moda è tra i più inquinanti e contribuisce ai cambiamenti climatici e il 54% conosce le condizioni di lavoro precarie lungo la filiera. Eppure, il 47% ammette di buttare vestiti danneggiati senza tentare di ripararli, incentivati dal basso prezzo dei vestiti in commercio.  

Il boom del second hand: un mercato da 177 miliardi che non riduce l’impatto ambientale

Il mercato globale del second hand valeva 177 miliardi di dollari nel 2022 e se ne prevede il raddoppio entro il 2027. Una crescita che l’industria della moda tradizionale osserva con interesse. Non a caso H&M, Zara e persino Shein hanno lanciato le proprie piattaforme di compravendita di capi usati. «Questi programmi servono soprattutto obiettivi reputazionali», nota lo studio. I marchi promuovono il riuso continuando a produrre volumi record. Nel 2023 l’industria ha generato tra 2,5 e 5 miliardi di capi in eccesso, per un valore stimato tra 70 e 140 miliardi di dollari. Molti sono finiti in discarica o negli inceneritori. Altri sono stati esportati verso il Sud Globale, dove saturano i mercati locali in quella che alcuni studiosi definiscono “colonialismo dei rifiuti”.

Il nodo è strutturale: l’usato promette di allungare la vita dei prodotti, ma se questi prodotti sono progettati per durare una stagione, il cerchio non si chiude. Un maglione di Shein a 5 euro, anche se rivenduto tre volte su Vinted, non diventa sostenibile. Semplicemente prolunga di qualche mese il suo viaggio verso la discarica.

E del resto, chi si occupa di raccogliere e distribuire abiti usati a persone bisognose inizia ad avere problemi. «Siamo sommersi, sono troppi e di scarsa qualità. Continuare a prendere tutto è impossibile», racconta a Repubblica Ilaria Dorigo della Porticina della Provvidenza, un’associazione di volontariato di Bologna. La responsabilità per Dorigo è chiara: da un lato la fast fashion, che ha aumentato i consumi “usa e getta”, dall’altro una scarsa consapevolezza al momento del dono. «Ringraziamo sempre la gente che si rivolge a noi. Ma non tutti comprendono i bisogni effettivi di chi è in strada o in uno stato di indigenza». Dorigo lo spiega chiaramente: servono felpe, maglioni, pantaloni resistenti. «Invece arrivano moltissimi vestitini alla moda, leggeri e sintetici, che non sono utili a nessuno dei nostri utenti in disagio abitativo». 

Come ridurre davvero l’impatto della moda: soluzioni oltre il mercato dell’usato

I ricercatori sono netti: «Le politiche non devono trattare i mercati secondari come categoricamente virtuosi». Servono interventi su più livelli. Primo, trasparenza obbligatoria: le piattaforme di rivendita dell’usato dovrebbero rendere pubblici i dati su inventario invenduto, emissioni da spedizioni, pratiche di marketing che incentivano acquisti compulsivi. Secondo, certificazioni serie che distinguano chi fa davvero economia circolare da chi fa greenwashing.

Ma soprattutto, serve un cambio di paradigma culturale. Non basta spostare gli acquisti dal nuovo all’usato. Bisogna comprare meno, punto. Tenere i vestiti più a lungo. Imparare a ripararli (solo il 18,9% degli intervistati ci prova). Accettare che un guardaroba può non cambiare ogni stagione.

Le campagne di sensibilizzazione da sole non bastano. Lo studio lo dimostra: sapere non implica agire. Anche perché è importante riconoscere la dimensione emotiva e edonica del consumo. «Molte persone traggono piacere, conferme identitarie o un senso di novità dallo shopping, indipendentemente dal fatto che acquistino articoli nuovi o usati. Questa realtà comportamentale complica gli interventi sul lato della domanda e mette in evidenza l’importanza di regolamentare i fattori di sovraconsumo dal lato dell’offerta», sottolineano gli autori della ricerca.

Servono incentivi economici concreti: tasse sui capi usa-e-getta, sgravi su riparazione e upcycling, responsabilità estesa del produttore. E forse, regole anche per chi vende usato: se Vinted incoraggia a comprare dieci magliette al mese «perché tanto sono sostenibili», è parte del problema, non della soluzione.

L’ultima notifica

Mentre scriviamo, Sofia riceve una notifica: «Sconto del 20% sui primi 5 acquisti questo mese». È Vinted. Apre l’app. In fondo, è solo usato. Che male c’è?

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