Dalla Playstation ai giocattoli, i grandi assenti sotto l’albero
Playstation introvabili, giocattoli ordinati con mesi di anticipo. La crisi delle supply chain scombussola anche il Natale 2021
A RankFTW – si firma così un utente scozzese del popolare forum di gaming ResetEra – non sembrava vero quando ha ricevuto una mail di Sony che lo invitava a una vendita esclusiva della Playstation 5, la consolle ormai introvabile da mesi. L’appuntamento era tra le 8 e le 10 del mattino. Si è collegato con largo anticipo sull’orario previsto, si è messo in coda, ma non c’è stato comunque niente da fare. In appena dieci minuti era già tutto esaurito.
Il caso-Playstation 5
L’irreperibilità della Playstation 5 è ormai proverbiale. E, chissà, forse non dispiace ai piani alti del marketing di Sony, visto che aggiunge qualcosa al suo fascino. Fin da quando è stata messa sul mercato, a novembre del 2020, è stata difficile da trovare nei negozi (fisici o digitali che fossero). Un po’ perché la campagna vaccinale va avanti a spizzichi e bocconi nei Paesi in via di sviluppo, dove hanno sede fornitori e subfornitori della multinazionale giapponese. Un po’ per il grande spauracchio delle aziende tech di tutto il mondo, cioè la crisi dei microchip.
C’è da dire che la PS5 ha comunque battuto ogni record, superando i 10 milioni di vendite già nel mese di giugno 2021. Dopodiché, però, non è più riuscita a pareggiare i ritmi del modello che l’ha preceduta, la PS4. E Sony – rivelano a Bloomberg alcune fonti che preferiscono mantenere l’anonimato – è stata costretta a ridimensionare i suoi piani.
Inizialmente puntava a sfornare 16 milioni di consolle entro la fine di marzo 2022, ma ha preferito tagliare la produzione di circa un milione di pezzi. Con buona pace degli appassionati che già adesso sono disposti a mettersi in coda nottetempo davanti ai punti vendita di Gamestop, dopo aver ricevuto la soffiata su qualche decina di pezzi in arrivo. Oppure a sborsare oltre mille euro, più del doppio rispetto al prezzo di listino, pur di accaparrarsi una Standard Edition su eBay.
La crisi dei microchip
Una simile tempesta perfetta non si sarebbe potuta immaginare nemmeno a studiarla a tavolino. Tutto è cominciato quando le scuole e gli uffici si sono svuotati per il lockdown. Volenti o nolenti, i cittadini – da Milano a Seattle – si sono dovuti ricavare postazioni di studio e lavoro casalinghe, comprando computer, monitor e webcam. Dovendo trascorrere 24 ore su 24 in casa, hanno provato almeno a renderla più confortevole, magari dotandola di una nuova TV o di un dispositivo per purificare l’aria. Prodotti estremamente diversi che però hanno una cosa in comune: i chip.
Chip che servono anche per i veicoli, ed ecco aprirsi un altro capitolo. Le case automobilistiche hanno stoppato gli ordini dall’oggi al domani, senza però immaginare che già a fine anno avrebbero già dovuto rimettere in moto la macchina. O meglio, ci hanno provato, perché le fabbriche – già oberate di lavoro – li hanno respinti al mittente. Nel frattempo Huawei accumulava scorte di processori e semiconduttori per assicurarsi di poter continuare la produzione nonostante le sanzioni imposte dall’amministrazione Trump. E altre società cinesi seguivano il suo esempio, innescando una reazione a catena.
A completare il quadro, gli imponderabili disastri che si sono susseguiti da un capo all’altro del Pianeta. Le fabbriche di semiconduttori della zona di Austin si sono dovuti fermare per l’ondata di gelo artico che ha colpito il Texas a febbraio 2021. Poche settimane dopo, un rogo danneggiava pesantemente lo stabilimento giapponese di proprietà di Renesas Electronics Corp, fornitore di fiducia di svariate case automobilistiche.
Prima o poi l’equilibrio tra domanda e offerta di chip si ristabilirà, ma bisognerà attendere ancora diversi mesi. E le previsioni non sono unanimi. Bloomberg, nel ricostruire questa vicenda, parla di “centinaia di miliardi che saranno spesi nei prossimi anni in una corsa globale verso l’espansione della produzione, con conseguenze geopolitiche ed economiche”. Miliardi, non milioni.
Un anno di grattacapi per Babbo Natale
Le vicissitudini del biennio 2020-2021 metterebbero a dura prova anche la ferrea organizzazione dei genitori più esperti. Già a Ferragosto, in tempi non sospetti, il Guardian avvertiva: «Se sai cosa vuole tuo figlio per Natale, e vuoi risparmiarti la più frenetica corsa ai regali degli ultimi anni, compralo adesso e nascondilo in una credenza».
Il quotidiano britannico non si è mai spinto fino a dipingere il desolante scenario dei negozi di giocattoli che, il 23 dicembre, accolgono i loro clienti con gli scaffali ormai vuoti. Piuttosto, spiega che la crisi delle supply chain rende più complicato del solito soddisfare le aspettative dei bambini più grandicelli, cioè quelli che non si accontentano di “un regalo” ma sanno cosa vogliono nei minimi dettagli. Tanto più perché questi desideri, spesso e volentieri, sono dettati da martellanti campagne pubblicitarie che creano fenomeni di massa dal nulla.
Il risultato? Un colosso del calibro di Hasbro (che produce il Monopoli e Forza 4, per citare due dei giochi da tavola più celebri) ha già fatto sapere di non aver evaso ordini per 100 milioni di dollari nel terzo trimestre 2021. Prese dal panico, molte famiglie – soprattutto americane – hanno stipato pacchi e pacchetti in casa con mesi di anticipo. Salvo poi, magari, raddoppiare a Natale. Su una scala un po’ diversa, anche i proprietari dei piccoli negozi hanno preferito piazzare ordini ben più consistenti fin dai mesi estivi pur di scongiurare l’incubo di trovarsi sguarniti a Natale. Intanto le organizzazioni come The Toy Foundation, che regalano giocattoli ai bambini in difficoltà, hanno visto crollare le donazioni dell’80% in valore rispetto al 2019.
Container introvabili e costosissimi
Ma perché questa – vera o presunta – penuria di giocattoli? Perché, nello stesso periodo in cui si esaurivano le scorte di microchip, anche i container sono diventati introvabili. O meglio, le restrizioni anti-Covid hanno ridotto all’osso la presenza di personale nei porti e paralizzato intere rotte commerciali per mesi. Come risultato, migliaia di container sono rimasti bloccati, spesso vuoti, a migliaia di chilometri di distanza dai luoghi dove sarebbero tornati utili. Ben presto i loro tempi di consegna si sono dilatati e i costi sono schizzati verso l’alto. L’Economist a settembre 2021 parlava di una spesa di quasi 15mila dollari per spedire un container da Shanghai a New York. Due anni prima ne bastavano 2.500.
Si è addirittura creato un curioso business parallelo, fatto di imprese che recuperano i container carichi che giacciono abbandonati da mesi sulle banchine, sempre per i problemi logistici degli ultimi mesi. Alcuni contengono merce deperibile. Altri, invece, beni che ormai sono clamorosamente fuori stagione (come i ventilatori ordinati a maggio e recapitati al grossista a settembre). Altre volte ancora, la merce di per sé è perfetta ma i costi di deposito superano il suo valore. Così si sono fatte avanti queste ditte che si fanno carico dei container, scoprono cosa c’è dentro e li restituiscono vuoti alle compagnie di navigazione. Se sono pieni zeppi di rifiuti, richiedono un contributo per lo smaltimento. Se invece la merce ha ancora un valore, la comprano a un prezzo stracciato per poi rivenderla online.
La rivincita dell’artigianato e del second hand
A giudicare dai numeri, c’è qualcuno che sembra immune alla crisi globale delle supply chain. Si tratta di Etsy, il più grande marketplace di oggetti artigianali e vintage. Lo stesso che all’inizio del 2021 si è comprato l’app di compravendita di vestiti usati Depop – uno dei due unicorni italiani – per qualcosa come 1,6 miliardi di dollari.
Con lo scoppio della pandemia, per Etsy si è aperto un periodo d’oro che non accenna a sfumare. Solo nel terzo trimestre del 2021 ha incassato 532,4 milioni di dollari di ricavi, con un balzo in avanti del 17,9 per cento rispetto allo stesso periodo (già roseo) dell’anno precedente. Merito degli utenti che non si limitano a provarlo una tantum ma acquistano sempre più spesso, considerandolo una valida alternativa allo strapotere di Amazon ed eBay. L’amministratore delegato Josh Silverman si fa vanto di una «supply chain fortemente distribuita, con imprenditori creativi sparsi da un capo all’altro del Pianeta», che permette un servizio che «molti altri non possono offrire durante queste festività». Ed è già pronto a incoronare il quarto trimestre 2021 come il migliore di sempre.
Sorride anche il mondo del second hand, un po’ ovunque e in tutti i settori. Dall’Irlanda, dove le auto usate costano ormai di più rispetto al loro prezzo di listino, fino agli Stati Uniti, dove tre consumatori su quattro si dichiarano pronti ad acquistare qualcosa di usato durante le feste di Natale (o almeno è quanto emerge da un sondaggio condotto dall’e-commerce Mercari). E in Italia? L’Osservatorio Second Hand condotto da BVA Doxa per Subito parla di un giro d’affari da 23 miliardi di euro per il mercato dell’usato nel 2020. Sarà la crisi delle supply chain a farci innamorare una volta per tutte dell’economia circolare? È ancora presto per dirlo. Se così fosse, però, sarebbe proprio vero che non tutto il male viene per nuocere.