PODCAST

La sostenibilità di H&M è insostenibile?

28:10

«Let’s make second hand fashion the new normal!», ha scritto sul suo profilo LinkedIn Felicia Reuterswärd, Sustainability manager di H&M. Annunciando con entusiasmo l’integrazione della vendita di abiti usati nell’e-commerce del marchio svedese.

È dal 2015 che H&M investe nella piattaforma di reselling svedese Sellpy attraverso il suo fondo di investimenti H&M Co:Lab e ora ne possiede il 70% delle quote. Un coinvolgimento che ha aiutato la piattaforma a crescere nel mercato europeo, arrivando in Germania a giugno 2021 e preparandosi ora all’ingresso nei Paesi Bassi e in Austria. Pronta ad aprirsi poi ad altri venti Paesi.

L’interesse per il settore del second hand risponde alla crescente domanda da parte dei consumatori, soprattutto giovani. Ragazze e ragazzi sensibili a tematiche ambientali e più consapevoli delle generazioni che li hanno preceduti del potere delle proprie scelte.

Svolta sostenibile o greenwashing per H&M?

«Dobbiamo consumare meno risorse del Pianeta e dobbiamo utilizzare ciò che già abbiamo», si legge nel sito dell’azienda svedese, colosso del fast fashion. Già, perché H&M è uno dei nomi più noti di un settore che è tra i meno sostenibili al mondo.

La “fast fashion” è un modello di business, una strategia aziendale. Adottata dalle grandi industrie del settore della moda dagli anni Ottanta a oggi, ha consentito di moltiplicare esponenzialmente le collezioni. Ciascuna casa ne sfornava un paio all’anno. Ora sono 52, tra linee speciali e partnership con marchi specifici. Ma la fast fashion ha consentito anche di abbassare drasticamente i prezzi. Un fatto positivo? Purtroppo no, perché per ottenere questo risultato i brand “tagliano” sulla voce che maggiormente incide sul prezzo degli abiti: il costo del lavoro. E i diritti dei lavoratori: sono oltre 50 milioni le persone nel mondo, quasi tutte donne, impiegate nel settore tessile-abbigliamento. Con stipendi che permettono a stento di sopravvivere.

Il lodevole impegno di H&M nel settore dell’usato rischia quindi di essere in realtà una semplice operazione di greenwashing. Ciò se a questi investimenti non corrispondono impegni per ridurre la produzione e rispettare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori lungo tutta la filiera.

Ne abbiamo parlato con Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti.