Brand activism o washing? Quando le multinazionali si mostrano “impegnate”

Numerose grandi aziende aderiscono a campagne sociali, filantropiche o ambientali. Per convinzione o perché conviene?

Paolo Iabichino © BTO

Negli ultimi anni accanto ai “classici” termini dell’organizzazione aziendale (mission, vision) è comparso un nuovo termine: purpose. La cui traduzione letterale è “scopo”. Applicato al mondo del business significa ritrovare le ragioni profonde che spingono a fare impresa. Per certi versi potrebbe sembrare una buzz word, una moda. Che da noi ancora stenta ad affermarsi, ma che dall’altra parte dell’Atlantico è ormai radicata e guida le scelte aziendali di numerose società, anche multinazionali.

Dal purpose all’azione

Il purpose chiama le aziende a un’assunzione di responsabilità, anche sociale. Ed è molto più di una tecnica di marketing. Agire guidati dal purpose significa attivare buone pratiche che rendono concreto il proprio impatto sociale e ambientale.

Oggi la corporate social responsability (CSR) non è più sufficiente. Le nuove generazioni di consumatori, i Millennial e, soprattutto, la Generazione Z, sono sempre più esigenti. L’adesione a progetti di terzi, la messa in scena di iniziative solidali non basta a soddisfare la richiesta di impegno etico che arriva da questi nuovi consumatori. E per questo le aziende sono chiamate ad agire in maniera credibile, rilevante e pertinente. Realizzando un impatto sulla società per cambiarla in meglio.

Anche la maionese ha un purpose

Per stare sul mercato oggi, dunque, è sempre più importante per le aziende saper “stare nel mondo”. Essere in grado di leggere i problemi e interrogarsi sul modo in cui è possibile fornire un contributo alla soluzione. Agire guidati dal purpose coinvolge tutti i settori e i reparti di un’azienda. Obbliga a ripensare i prodotti e il packaging, le filiere e la distribuzione. Costringe a una progettazione di medio e di lungo termine. In molto casi significa attuare vere e proprie rivoluzioni. È il caso, per esempio, di Lego, che sta sviluppando la produzione dei suoi famosi mattoncini in bioplastica e plastica riciclata per abbandonare definitivamente la plastica entro il 2030.

E se da un lato ci sono i consumatori, sempre più attenti ed esigenti, che non si accontentano di iniziative puramente pubblicitarie che diventano washing, dall’altra ci sono gli investitori. Che spesso sono molto meno avanzati dei consumatori, così concentrati sui risultati trimestrali e sulle cifre scritte sui bilanci. Esemplare, in questo senso, la lettera inviata da Terry Smith, amministratore delegato del fondo Fundsmith, uno dei maggiori azionisti di Unilever, agli altri azionisti della multinazionale. Nella lettera Smith accusa Unilever di essere troppo presa a inseguire il purpose, dimenticando «i fondamentali del business». «Un’azienda che sente di dover definire lo scopo di una maionese», si legge nella lettera «ha, secondo la nostra prospettiva, perso la testa».

Un punto di vista miope, che non tiene in conto il fatto che dietro a una maionese si nascondono questioni enormi: l’accesso al cibo e il diritto a un’alimentazione sana, la diffusione dell’obesità e delle malattie e dei disturbi collegati al sovrappeso, gli allevamenti avicoli e le filiere. Si può fare la maionese in molti modi. E scegliere di farla cercando di migliorare il proprio impatto sul mondo finisce per essere premiato dai consumatori.

Quando il purpose sfocia nel washing

Ogni anno a gennaio Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, scrive una lettera ai CEO delle aziende in cui investe il suo fondo. Nel 2018 la lettera di intitolava “A sense of purpose“. E in essa Fink invita le aziende alla creazione di valore a lungo termine chiedendo ai CEO di avere un coinvolgimento più profondo in queste strategie. «Le aziende devono chiedersi: che ruolo svolgiamo nella comunità? Come gestiamo il nostro impatto sull’ambiente? Stiamo lavorando per creare una forza lavoro diversificata?».

Parole apparentemente illuminate. Ancor più quelle della lettera del gennaio 2020, da titolo “Un fondamentale rimodellamento della finanza“, nella quale Fink promette di mettere la sostenibilità al centro del proprio modo di investire. «Le imprese, gli investitori e i governi devono prepararsi ad una significativa riallocazione dei capitali», si legge nella lettera. «Riteniamo che gli investimenti sostenibili rappresentino ormai il miglior modo di garantire solidità ai portafogli dei clienti»

Una posizione netta. Almeno a parole. A cui però non seguono i fatti.

Cambiano le regole del gioco, e la prima regola è che non si gioca più

Crisi climatica, diritti umani, diritti delle lavoratrici e dei lavoratori. Inclusione e diversity. Le nuove generazioni sono sensibili alle grandi questioni del nostro tempo. Prendono posizione e chiedono anche alle aziende e ai marchi di farlo. E orientano le loro scelte di consumo anche in base a una serie di criteri valoriali. Ma non si accontentano del brand che nel mese del pride veste di arcobaleno le proprie pagine social. Vogliono aziende autenticamente inclusive.

Di tutto questo abbiamo parlato con Paolo Iabichino. Scrittore pubblicitario, direttore creativo, fondatore dell’Osservatorio Civic Brands con Ipsos Italia. Se si parla di marketing è una delle voci più autorevoli nel nostro Paese.