Con il Piano Draghi rischieremmo di dire addio alla responsabilità delle imprese
Nel rapporto Draghi sulla competitività europea, due diligence e rendicontazione di sostenibilità sono descritte come oneri eccessivi per le imprese
Le direttive dell’Unione europea sulla due diligence e sulla rendicontazione di sostenibilità, raggiunte a fatica e al prezzo di parecchi compromessi? Sono un aggravio normativo per le imprese. È quanto si legge nelle oltre quattrocento pagine dell’attesissimo rapporto sul futuro della competitività europea scritto da Mario Draghi.
Cosa dice il rapporto sulla competitività europea di Mario Draghi
Era lo scorso settembre quando la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha assegnato all’ex-governatore della Banca centrale europea l’incarico di stilare una relazione sulla competitività dell’Unione. Il rapporto Draghi, appunto. I piani iniziali prevedevano che venisse pubblicato subito dopo le elezioni, a ridosso del Consiglio europeo di fine giugno. Ma i tempi si sono allungati fino a lunedì 9 settembre.
È un documento lungo, fitto. Un testo che prende il via dai dati sul rallentamento della crescita e della produttività in Europa per definire tre aree di intervento: ridurre il divario con Cina e Stati Uniti in termini di innovazione, adottare un piano unitario per la decarbonizzazione e la competitività, migliorare la sicurezza e ridurre la dipendenza dall’estero. Centinaia le proposte, il cui minimo comune denominatore è sempre lo stesso: agire collettivamente, senza più disperdere risorse ed energie tra Stato e Stato.
È vero anche che il rapporto Draghi esprime una linea di indirizzo, ma non ha nulla di vincolante. Tanto più perché, per realizzare queste proposte, l’Unione dovrebbe stanziare investimenti giganteschi. Soltanto per la digitalizzazione e la decarbonizzazione dell’economia, unita all’aumento della capacità di difesa dell’Unione, il rapporto parla di un incremento annuo di almeno 5 punti percentuali degli investimenti rispetto al prodotto interno lordo. Per avere un termine di paragone, gli investimenti del Piano Marshall ammontarono all’1-2% del PIL dei Paesi beneficiari.
Le norme per la responsabilità delle imprese? Troppo costose e complicate
Considerato anche che la nuova Commissione europea si deve ancora insediare, i tempi non sono ancora maturi per poter dire se – e in che misura – le indicazioni del rapporto Draghi si tradurranno in pratica. Ma senza dubbio salta all’occhio un atteggiamento a dir poco tiepido nei confronti delle principali misure che l’Unione europea ha adottato in questi ultimi anni per convincere le imprese ad agire in modo più responsabile.
La seconda parte del rapporto, a pagina 318, le nomina una per una: la direttiva sul reporting di sostenibilità (nota con l’acronimo CSRD), la tassonomia (in particolare il principio “do not significant harm”, non provocare un danno significativo), la Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR), la direttiva europea sulla due diligence (CSDDD), il regolamento sull’ecodesign (ESPR), la direttiva sulle emissioni industriali, il sistema di scambio delle emissioni (ETS) e il regolamento REACH sui prodotti chimici.
Nel suo insieme, si legge nel rapporto Draghi, questa legislazione sarebbe «una delle principali fonti di oneri normativi, amplificata dalla mancanza di orientamenti volti a facilitare l’applicazione di norme complesse e a chiarire l’interazione tra i diversi atti legislativi». La principale preoccupazione è data dai costi. Uniti al rischio che le imprese della filiera si trovino a rendicontare addirittura più del dovuto, per la difficoltà a interpretare norme che si intrecciano l’una con l’altra.
Una deregolamentazione che piace alle imprese e preoccupa la società civile
E dire che questi testi erano stati già parecchio annacquati rispetto alle loro ambizioni originarie. L’esempio da manuale è la CSDD, la direttiva che obbliga le imprese a vigilare sul rispetto dei diritti umani e dell’ambiente nella catena del valore. A un certo punto il progetto sembrava sull’orlo del fallimento per l’opposizione di un gruppo di Stati capeggiato dalla Germania (col supporto anche dell’Italia). Poi il sì è arrivato, ma soltanto dopo aver ridotto visibilmente il perimetro delle imprese coinvolte. Qualcosa di molto simile è accaduto per la rendicontazione non finanziaria. Le istituzioni europee hanno definito le nuove regole, salvo poi esonerare migliaia di imprese dalla loro applicazione.
Anche questo, però, per il rapporto Draghi evidentemente è troppo. Una posizione che incontra i favori di BusinessEurope, la principale lobby delle imprese europee. «Presteremo molta attenzione alla richiesta di una rinnovata strategia industriale che, giustamente, dia priorità a misure come gli incentivi per gli investimenti produttivi in Europa, l’abbassamento dei costi energetici o la riduzione degli oneri normativi per le imprese. Le forze di mercato dovrebbero essere al centro di tale strategia, invece di un eccessivo intervento pubblico», dichiara tramite una nota il presidente Fredrik Persson.
A questo entusiasmo fa da contrappeso la preoccupazione della società civile. Climate Action Network Europe, per esempio, parla di «un’agenda per la semplificazione che, in alcune parti, contiene preoccupanti elementi di deregolamentazione che pongono gli obiettivi climatici e ambientali l’uno contro l’altro». Intervistato dalla testata francese Novethic, il direttore delle politiche europee della World Benchmarking Alliance, Richard Gardiner, descrive il rapporto Draghi come «un vero e proprio attacco alle normative europee sulla sostenibilità». Un testo che «riprende chiaramente il linguaggio dell’industria sul presunto onere costituito dal quadro normativo europeo sulla sostenibilità».