Recessione & inflazione: il conto della Brexit lo pagano i lavoratori

Standard & Poors: i danni della Brexit valgono il 5,5% del Pil. Disoccupazione in forte crescita. E salari reali in diminuzione. Di nuovo

Matteo Cavallito
La marcia pro UE da Hyde Park a Westminster nel 60esimo anniversario dei Trattati di Roma (Londra, 25 marzo 2017) © Ilovetheeu/Wikimedia Commons
Matteo Cavallito
Leggi più tardi

Senza un accordo con Bruxelles, il Regno Unito potrebbe pagare a caro prezzo le conseguenze della Brexit sperimentando una significativa fase di recessione e un’inevitabile crescita della disoccupazione. Lo sostiene Standard & Poor’s in un rapporto pubblicato in questi giorni. L’allarme lanciato dall’agenzia di rating riaccende i riflettori sulla complessa trattativa tra Londra e l’Unione europea.

Hard Brexit?

La premier britannica Theresa May è ancora alla ricerca di un’intesa con i negoziatori del Continente per evitare così la temuta ipotesi della Hard Brexit. In caso contrario, l’uscita del Regno Unito aprirebbe la strada a un interludio carico di incertezza. A regolare i rapporti commerciali interverrebbero momentaneamente le norme del WTO, l’organizzazione mondiale del commercio, con la conseguente introduzione di dazi e barriere doganali standard.

Da questa situazione, ha avvertito di recente uno studio del think tank tedesco Institut der deutschen Wirtschaft, avrebbero da perdere tutti: i grandi Paesi esportatori della UE – Germania in testa – ma anche le imprese di Sua Maestà, chiamate a sostenere costi aggiuntivi per quasi 15 miliardi di euro sulle cosiddette barriere non tariffarie.

Recessione…

Da 15 a 18 mesi di recessione. È questa la previsione dell’agenzia in caso di no-deal Brexit. Nel dettaglio, si legge nel rapporto, il Pil del Regno Unito si contrarrebbe dell’1,2% nel 2019 e dell’1,5% nel 2020 per poi tornare a crescere moderatamente nel 2021 (+1,2%).

Le perdite contrastano con le previsioni di crescita in caso di accordo con la UE, fissate da S&P in un +2,8% nel biennio. A conti fatti, l’economia britannica pagherebbe un prezzo complessivo pari al 5,5% del Pil (-2,7% con Hard Brexit vs +2,8% in caso di accordo).

…e altri guai. A partire dalle famiglie

Ma non è tutto: il mercato azionario sperimenterebbe un calo degli indici e le imprese farebbero i conti con un aumento dei costi di finanziamento. In crisi anche il mercato immobiliare con i prezzi giù del 10% nel comparto residenziale. Nei settori più inflazionati il conto dovrebbe essere ancora più salato (-20% per il prezzo di mercato degli uffici londinesi).

La combinazione dei fattori negativi si abbatterà ovviamente sulle famiglie britanniche che, tra il 2019 e il 2021, dovrebbero perdere circa 2.700 sterline all’anno alla voce reddito. L’unica buona notizia è che nulla di tutto ciò appare al momento paragonabile alla grande recessione del 2008-09. Allora, dicono le cifre ufficiali, il Pil UK bruciò oltre il 6% del suo valore nello spazio di un anno e mezzo.

Pound will tear us apart (again)

Le previsioni peggiori però sono quelle che riguardano il mercato del lavoro:

da qui al 2021, ipotizza infatti S&P, il tasso di disoccupazione dovrebbe raggiungere il 7,4% contro il 4% registrato oggi.

Ma i guai, per i lavoratori, non finiscono qui: a creare ulteriori problemi, infatti, è l’ascesa dell’inflazione che già nell’estate del 2019 dovrebbe raggiungere il suo picco a quota 4,7%. Le conseguenze rischiano di farsi sentire sul fronte dei salari il cui potere d’acquisto è destinato a calare. L’indebolimento della sterlina, infatti, confermerebbe una tendenza ormai consolidata che nel rapporto tra gli stipendi e il costo della vita, due voci che nel Regno Unito post crisi vanno sempre meno d’accordo.

La crescita dei salari reali nel Regno Unito. Dal 2008 a oggi l’aumento dei prezzi è stato quasi sempre superiore a quello delle retribuzioni. Fonte: UK Office for National Statistics

Dopo la grande recessione del 2008-09, l’aumento dei prezzi è stato quasi sempre superiore a quello delle retribuzioni. Tradotto: negli ultimi dieci anni l’inflazione si è mangiata una fetta non trascurabile dei redditi da lavoro. Verso la fine del 2014, complice il forte calo del petrolio, il Regno Unito ha conosciuto un’inversione di tendenza ma il fenomeno, visto da una prospettiva di lungo periodo, è stato di breve durata.

A partire dal 2017 la crescita dei salari reali è rientrata in territorio negativo dove, nell’ipotesi di un pound sempre più debole, promette ora di restare a lungo.

La Brexit nella palude dei negoziati

Dal tavolo dei negoziati, nel frattempo, non giungono buone novelle. A meno di cinque mesi dal fatidico 29 marzo – data ufficiale del divorzio – l’ipotesi della Hard Brexit è sempre più probabile. Ai ritmi attuali, ammette il Guardian, Londra e Bruxelles rischiano di non avere più sufficienti tempi tecnici per concludere e ratificare un accordo. Sull’impasse diplomatico pesa soprattutto la questione irlandese, ostacolo numero uno sulla strada del negoziato.

Theresa May cerca faticosamente un compromesso ma tra i conservatori non mancano i sostenitori della linea dura, a partire dal collega di partito Boris Johnson. L’ex sindaco di Londra, in particolare, è da sempre alfiere dell’ipotesi dell’accordo “debole”, sulla falsariga del trattato commerciale tuttora in vigore tra la UE e il Canada. L’obiettivo? Un accesso preferenziale al mercato unico che lasci tuttavia mano libera a Londra nella definizione della sua politica commerciale. Il tempo gioca a suo favore.