Stati Uniti, la Climate Action 100+ si sgretola
I Repubblicani attaccano e gli investitori si sfilano uno dopo l’altro dalla coalizione Climate Action 100+
Dall’altra parte dell’Oceano non sono tempi facili per la finanza ESG, cioè quella che include valutazioni ambientali, sociali e di governance. Proprio quando ce ne sarebbe più bisogno, con i record di temperatura infranti uno dopo l’altro, i Repubblicani continuano imperterriti ad attaccare quegli investitori che cercano di contribuire alla decarbonizzazione dell’economia. Una crociata che sembra sortire i suoi effetti, a giudicare dal fuggi fuggi generale da Climate Action 100+: la principale coalizione internazionale che era nata con questo obiettivo e aveva appena cominciato a fare sul serio.
Cos’è la coalizione Climate Action 100+
La coalizione Climate Action 100+ nasce nel 2017, quando un gruppo di importanti investitori istituzionali decide di rivolgersi alle aziende che emettono le maggiori quantità di gas a effetto serra. Inizialmente erano 100, poi il gruppo si è allargato a 170: sono i grandi nomi del settore petrolifero, siderurgico, chimico, della grande distribuzione, dell’aviazione e così via.
L’obiettivo? Per cominciare, avviare un dialogo per convincerle a includere il clima nelle proprie strategie. I progressi ci sono stati, visto che ad oggi il 77% delle società interessate si è impegnato ad azzerare le emissioni nette entro il 2050, almeno per lo Scope 1 e lo Scope 2. A giugno 2023, dunque, Climate Action 100+ ha annunciato l’avvio della fase 2. Molto più ambiziosa, perché passa dalla rendicontazione (diclosure) all’azione (implementation). Da qui alla fine del decennio, infatti, i firmatari chiederanno alle imprese di mettere in atto – tra le altre cose – solidi piani di transizione climatica che comportino un taglio delle emissioni nella loro catena del valore.
Una presa di posizione di un certo calibro, perché arrivava da 700 investitori istituzionali che gestiscono asset per un valore complessivo che supera i 68mila miliardi di dollari. Il principio d’altra parte è semplice: a chi altro dovrebbero dare retta le grandi imprese, se non ai loro stessi azionisti?
Le pressioni dei repubblicani americani
I Repubblicani statunitensi, però, non sono della stessa opinione e da più di un anno bollano la finanza ESG come espressione dell’ideologia woke. La parola, intraducibile in italiano, indica secondo loro quel progressismo che si occupa solo dei diritti civili e finisce per perdere di vista le reali esigenze delle persone. In quest’ottica, un investitore che preme per la decarbonizzazione è un investitore che danneggia l’industria dei combustibili fossili. E dunque i lavoratori del comparto.
È una teoria strampalata e senza senso, dato che la società muta e i lavoratori possono essere impiegati, con ancora maggior profitto, nel percorso verso la transizione ecologica. Eppure ha molta presa. Non solo nell’estrema destra americana e europea, ma anche nel settore finanziario. Ecco perché, ad esempio, il fondo scolastico del Texas ha ritirato 8,5 miliardi di dollari da BlackRock, rivendicando di non voler fare affari con chi «boicotta» petrolio e gas.
Ed ecco perché la Commissione Giustizia della Camera statunitense, a maggioranza repubblicana, ha pubblicato un rapporto assurdo che denuncia l’esistenza di un «cartello per il clima» costituito da «attivisti di sinistra e grandi istituti finanziari che colludono per imporre alle imprese americane obiettivi radicali di tipo ambientale, sociale e di governance». Nell’estate del 2024, sempre la Commissione Giustizia ha scritto a 130 membri di Climate Action 100+, chiedendo loro di rendere conto della scelta di «mettere gli investimenti woke al primo posto rispetto al loro dovere fiduciario».
L’emorragia di investitori da Climate Action 100+
Già a febbraio, State Street Global Advisors, JPMorgan Asset Management e Pimco hanno fiutato il clima e si sono sfilati dalla coalizione Climate Action 100+. Senza citare esplicitamente le pressioni da parte repubblicana, ma spiegando genericamente di voler decidere in autonomia in materia di sostenibilità. Soltanto State Street si è spinta fino a criticare i requisiti più stringenti imposti dalla fase 2. BlackRock con un capolavoro di equilibrismo è rimasta, ma solo con la controllata internazionale. Per assicurare ai clienti statunitensi di dare sempre e comunque priorità ai parametri finanziari rispetto a quelli ambientali.
Commentando queste defezioni, Climate Action 100+ ribadisce che «la crisi climatica continua a esporre a un rischio finanziario sempre crescente il valore a lungo termine per gli investitori e l’economia nel suo insieme». La tanto criticata fase 2, quindi, altro non è che la logica prosecuzione di un percorso che era chiaramente delineato fin dall’inizio. «Non possiamo permetterci di fare un passo indietro ora», si legge nel comunicato. I portavoce dell’iniziativa si dicono consapevoli della «pressione politica che alcuni investitori affrontano in determinati mercati», una pressione che li porta a «considerare con attenzione come gestire al meglio i rischi climatici nei loro portafogli».
L’ultimo addio eccellente: Goldman Sachs Asset Management
L’esodo degli investitori da Climate Action 100+, però, continua. A maggio è stato il turno di AllianceBernstein Holding, che ha preferito non motivare pubblicamente la decisione. Allspring Global Investments, lasciando la coalizione alla quale si era unita nel 2019, ha spiegato di avere sviluppato il proprio framework per monitorare le informazioni sul clima delle società in portafoglio. E di restare «impegnata nella ricerca dei migliori risultati di investimento per i clienti». Anche Nuveen, asset manager con 1.200 miliardi di dollari di asset in gestione, ha confermato alla testata Responsible Investor di aver lasciato Climate Action 100+. Così come Breckinridge Capital Advisors, che faceva engagement con il colosso dei macchinari da costruzione Caterpillar, e Easterly Investment Partners.
Ma l’addio più pesante è quello di Goldman Sachs Asset Management, la società di investimenti che fa capo all’omonimo colosso bancario americano e che gestisce asset per oltre 2.600 miliardi di dollari. «Abbiamo investito nella nostra capacità di andare incontro alle necessità dei nostri clienti in materia di investimenti sostenibili e restiamo impegnati a far leva sulle nostre capacità a livello globale», recita la nota della società. Subito dopo se ne sono andate anche alcune sussidiarie di Franklin Templeton (ClearBridge Investments) e di Sun Life Financial (SLC Fixed Income e Crescent Capital). Con i loro quasi 300 miliardi di asset in gestione complessivi.
Stando alle ultime informazioni rese note alla stampa, ora i membri di Climate Action 100+ sono più di seicento. Molti se ne sono andati dopo il lancio della fase 2, ma sono stati rimpiazzati da un’ottantina di nuovi investitori. Il volume complessivo di asset in gestione, però, nell’arco di quest’ultimo anno è sceso visibilmente: da 68 a 50mila miliardi di dollari. Nonostante ciò, il progetto si dice intenzionato ad andare avanti. Almeno fino alla prossima defezione.