L’Europa fa guerra alla plastica ma quella prodotta da riciclo vale solo il 6%
La lotta ai rifiuti plastici è lontana dall'essere vinta. In troppi Paesi Ue la domanda è in crescita e le politiche di riduzione poco convincenti
Colpa o merito della Cina? Da quando la superpotenza d’Oriente ha chiuso i cancelli alle navi di rifiuti di plastica provenienti dall’Europa, il Vecchio Continente è stato costretto a pensare a qualche soluzione. E mentre in Italia continuano a bruciare improvvisamente i capannoni e gli impianti di smaltimento zeppi di immondizia non autorizzata, o accumulata senza limiti, Bruxelles e l’Agenzia europea per l’ambiente (EEA) delineano una strategia d’uscita. E i rapporti e le direttive mettono nel mirino una decisa riduzione preventiva degli scarti plastici.
Il percorso però è ancora lungo, come dimostra la relazione dell’EEA Preventing plastic waste in Europe esaminando 37 programmi nazionali e regionali di prevenzione dei rifiuti adottati entro la fine del 2018. I funzionari europei vagliano nel documento il quadro della produzione e consumo di plastica, del suo trattamento, elargiscono menzioni d’onore ai Paesi più attivi e alle pratiche più virtuose, bacchettando invece tra le righe chi non ha ancora colto l’importanza della sfida: ambientale, economica e sanitaria.
Negli ultimi 13 anni metà della plastica prodotta dal 1950
A preoccupare è il fatto che la richiesta di prodotti in plastica è in aumento in tutto il mondo e, in particolare, nel nostro continente. Nel 2017 la domanda in Europa ha raggiunto 52 milioni di tonnellate, ovvero circa il 15% di quella globale, cresciuta dalle 2 milioni di tonnellate del 1950 alle oltre 400 del 2015.
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Un quantitativo così enorme è ovviamente difficile da gestire in modo responsabile. Soprattutto se si considera che circa la metà delle materie plastiche prodotte nel periodo 1950-2015 è stata realizzata negli ultimi 13 anni. Peraltro, gli attuali ritmi di dismissione sono velocissimi: si pensi ad esempio al ciclo di vita del fast fashion, con miliardi di capi d’abbigliamento in tessuto sintetico. Al contrario, i progressi in materia di riciclo sono davvero limitati: nel 2016 appena il 6% della domanda di plastica europea è stata soddisfatta con materie prime seconde.
Non solo. La produzione complessiva è cresciuta di tre milioni di tonnellate rispetto al dato 2015, e tende purtroppo ad aumentare ancora, a causa del basso costo della plastica e di suoi innegabili vantaggi: la sua versatilità e durabilità innanzitutto la rendono efficace in un’ampia varietà di applicazioni. Risultato? Un bell’assist alla filiera delle fonti fossili:
«circa il 5% di tutto il petrolio e il gas consumato in Europa viene utilizzato nella produzione di materie plastiche (Plastics Europe 2018)».
Imballaggi nel mirino: Italia benino, Germania dietro la lavagna
Nel 2016, ogni abitante d’Europa ha smaltito 31,9 chili di rifiuti (+6% rispetto al 2007) e solo il 30% di quelli di plastica vengono raccolti per essere riciclati. In quale direzione orientare quindi gli interventi? In base alla relazione EEA, innanzitutto puntando forte sul contrasto agli imballaggi. Questo è infatti il settore che utilizza la maggior parte della plastica prodotta, ed è il più immediato e facile obiettivo delle strategie di riduzione dei rifiuti plastici.
In questo senso per l’Italia le notizie sono buone: siamo nel piccolo gruppo di Paesi che ha diminuito la produzione di rifiuti da packaging (-6%) tra 2007 e 2016. Sono appena sette le nazioni virtuose, guidate dalla Grecia (-36%), “merito” anche della profonda crisi economico-finanziaria. Al contrario, le economie dell’Europa orientale che guidano il gruppo dei meno attenti, accomunate a Finlandia, Germania, Austria e Svezia.
Una montagna di plastica nascosta nelle nostre case
D’altra parte, pensando ai settori di maggior produzione degli scarti di plastica alle spalle del comparto del confezionamento, viene quello delle costruzioni. Forse una sorpresa per molti ma dal settore edile deriva l’impiego di un’enorme volume di materiali: si pensi agli arredi interni, ai serramenti o ai pannelli del controsoffitto in PVC. E il suo smaltimento ricade sulla collettività dopo cicli di vita che possono durare anche 50 anni.
L’edilizia è perciò un campo in cui la riduzione dell’utilizzo di plastica è più difficile da attuare – ammettono gli analisti – ma con un potenziale di risorse da riciclare, che va senz’altro esplorato. Lo hanno fatto in Svezia a partire da uno studio sul riuso e dai circa 2,8 miliardi di euro investiti ogni anno nella ristrutturazione di uffici e negozi.
Il potenziale di prevenzione dei rifiuti proveniente da una ristrutturazione di un ufficio da 2mila mq (ogni sedia riutilizzata evita di smaltire 8 chili di plastica e 6 chili di metallo; ogni finestra contiene in media il 5% di plastica) raggiungerebbe le 40 tonnellate. Un vantaggio anche in termini di emissioni ridotte e risparmio: meno 69 tonnellate di CO2 e spese evitate per 200mila euro. A livello nazionale, questi dati varrebbero un potenziale di 25mila tonnellate di rifiuti in meno, con un risparmio di 126 milioni di euro e 43mila tonnellate di CO2 emessa.
Battaglia Ue contro la plastica in 173 misure nazionali
Già nel 2016, tuttavia, un’altra indagine EEA – Preventing plastic waste in Europe – rivela che i 28 Paesi membri più Norvegia e Svizzera hanno raccolto 27,1 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica per essere trattati attraverso i canali ufficiali. Plastics Europe (la lobby europea dei produttori plastici) afferma che, per la prima volta, la mole di rifiuti di plastica riciclati è stata superiore a quella smaltita in discarica. Ma il 37% è stato esportato per venire riciclato fuori dal continente. Svelando perciò come sia necessario sia spingere recupero e riciclo nella Ue sia favorire la riduzione assoluta della produzione di rifiuti.
Ecco quindi che i funzionari e ricercatori EEA elencano e promuovono le buone pratiche nazionali di progettazione ed ecodesign (cioè capaci di ridurre a monte l’utilizzo e lo spreco di materia prima), quelle di riduzione dei rifiuti dopo che già sono stati prodotti (questo il tipo di programmi più adottato) e dei loro impatti. Ma valutano anche gli strumenti per attuarle: informativi (la gran parte), regolatori, finanziari (una esigua minoranza), quelli basati su accordi volontari. Delle 173 misure di prevenzione dei rifiuti identificate, il 61% è indirizzato a coprire la fase di produzione dei prodotti in plastica, il resto la fase di consumo. E 37 sono quelle che intervengono sulle dinamiche di mercato, perlopiù applicando costi di utilizzo sui famigerati sacchetti di plastica.
Mancano target misurabili
Una varietà di obiettivi e misure in cui mancano troppo spesso target quantitativi misurabili e misurati, affermano tuttavia gli analisti, che pure apprezzano le buone pratiche migliori provenienti da Regno Unito (particolarmente elogiato per il suo Plastics Pact, con traguardi ben definiti), Portogallo, Olanda, Svezia.
Per l’Italia è citata in positivo la diffusione di punti vendita di merci al dettaglio distribuite in modo sfuso, cioè senza confezionamento.
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Ma oltre agli elogi ci arriva una bacchettata sonora: l’accusa per il nostro Paese è di non considerare una priorità il problema dei rifiuti plastici e della riduzione del packaging nell’ambito dei programmi di prevenzione.
L’incremento dei rifiuti non è segno di sviluppo: la sfida è spezzare la catena col Pil
Una critica, quella sulla priorità, che indica la strada. Anche per il futuro governo. E si associa alla funzione di indirizzo che l’Agenzia europea per l’energia attribuisce anche all’analisi della cosiddetta “waste intensity” (letteralmente “l’intensità di rifiuti”), che divide il quantitativo di rifiuti prodotti da un determinato Paese per il suo Pil. Il senso è quello di constatare – o meno – un disaccoppiamento progressivo tra i due valori: se il Pil si alza e i rifiuti diminuiscono la strada imboccata è quella giusta. Più sviluppo con meno rifiuti, nonostante la curva degli scarti da packaging cresca.
Il ragionamento mira a disarticolare la vulgata secondo cui crescita economica e spreco vadano necessariamente insieme. E determina una nuova “classifica” per Paese, guardando la variazione 2007-2016. Viste da questa prospettiva, per l’Italia le notizie non sono buone: si trova nella parte in cui la waste intensity pro-capite cresce. Non siamo nella top ten ma sopra la media Ue 28. Estonia, Polonia e Ungheria stanno in cima alla lista dei “cattivi”, mentre in «nove sono riusciti almeno a disaccoppiare dalla crescita economica la produzione di rifiuti di plastica da imballaggio».
Paros prima isola plastic free
Un buon risultato da prendere però con cautela, considerando la crisi economica di alcuni. Forse non è un caso, che a candidarsi per diventare la prima isola plastic free del mondo sia proprio la splendida Paros. Punta di diamante del turismo ellenico che cerca di massimizzare le proprie opportunità di sviluppo, puntando sul ambiente ed economia circolare.
«Parte fondamentale delle strategie indicate dall’Agenda 2030 per combattere la crisi climatica – confermano Walter Ganapini, uno dei massimi esperti di gestione rifiuti – è un sostanziale incremento nell’efficienza dell’uso di risorse finite. La riduzione della waste Intensity associata al nostro stile di vita si dimostra quindi obiettivo conseguibile, oltreché passaggio obbligato in termini di equità intra- ed inter-generazionale».