Il clima è la vittima collaterale della corsa al riarmo voluta dalla Nato
Il riarmo dei Paesi Nato fa impennare le emissioni e sottrae risorse all’azione per il clima. A rischio gli obiettivi dell’Accordo di Parigi
Ci sono tanti motivi per cui portare la spesa militare al 5% del prodotto interno lordo (Pil), come hanno concordato i 32 Paesi membri della Nato al summit tenutosi all’Aja a giugno, può rivelarsi una scelta disastrosa. Al di là della difficoltà di misurare tale parametro, che porta spesso all’adozione di trucchi contabili, è inevitabile che spendere di più nella difesa significhi sacrificare gli investimenti pubblici in sanità, welfare, istruzione. Lo si è visto in questi mesi in cui vari Stati europei hanno ridimensionato gli aiuti allo sviluppo: il Regno Unito è l’unico ad ammettere di averlo fatto a favore della difesa. Tutto questo mentre la militarizzazione, ben lungi da fungere da deterrente, alimenta instabilità e tensioni.
Ma c’è anche un altro motivo: lo esamina uno studio del Conflict and environment observatory, pubblicato in anteprima dal Guardian. Ogni dollaro in più speso nel riarmo ci allontana dall’azione per il clima.
L’impennata delle spese militari nel mondo
Se è vero che ci sono Paesi come Stati Uniti e Russia che da decenni spendono almeno il 3% del Pil nella difesa, altri hanno accelerato dopo l’invasione dell’Ucraina. Tra il 2021 e il 2024 la spesa militare complessiva dei 27 membri dell’Unione europea è cresciuta di oltre il 30%, raggiungendo alla fine del triennio i 326 miliardi di euro. È circa l’1,6% del Pil dell’Unione. Ora i Paesi Nato promettono di arrivare al 5% entro il 2035. Si tratta soltanto di un pledge, una dichiarazione politica non legalmente vincolante. E questo 5% comprende le più generiche spese per la sicurezza in cui l’Italia vuole far ricadere, tra le altre cose, il ponte sullo Stretto di Messina. Ma resta il fatto che questo trend è destinato a continuare.
Ciò significa più attività militari, tra addestramenti, pattugliamenti, esercitazioni e operazioni di guerra. Significa più personale, e dunque più basi, servizi, spostamenti. E più acquisti (e quindi produzione) di armamenti e tecnologie – che in Europa in meno del 40% dei casi seguono criteri “ambientali” non meglio specificati. Queste e altre attività non possono che aumentare le emissioni di gas serra, sebbene siano ancora pochi gli studi capaci di quantificare questa correlazione. Secondo un’analisi congiunta del Conflict and environment observatory, le attività militari ordinarie oggi sono responsabili del 5,5% delle emissioni globali. Se fossero uno Stato, sarebbero al quarto posto nella classifica globale dopo Cina, Stati Uniti e India. Tutto questo senza nemmeno aprire il capitolo delle catastrofiche conseguenze sui territori interessati dai conflitti.
Il riarmo potrebbe condannare al fallimento l’Accordo di Parigi sul clima
Le economie avanzate che fanno parte della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) sono tenute a comunicare annualmente le proprie emissioni. Ma non a rendicontare nel dettaglio le emissioni militari. Da qui la scarsità di informazioni che lo studio prova a colmare, focalizzandosi sull’impatto diretto e indiretto (Scope 1, 2 e 3) delle attività ordinarie dei Paesi Nato. Tranne gli Stati Uniti, perché la loro spesa militare è storicamente più alta. Nell’Unione europea, come detto, la spesa militare già sfiora il 2% del Pil e con il piano ReArm Europe potrebbe arrivare al 3,5%. È lecito ipotizzare che Regno Unito, Norvegia, Canada e Turchia seguano la stessa scia.
Considerato che ogni punto percentuale di Pil in più destinato alle spese militari fa crescere le emissioni nazionali tra lo 0,9 e il 2%, e che questi 31 Paesi Nato nel 2023 hanno riversato in atmosfera quasi 4,9 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, l’aumento annuo è stimato tra gli 87 e i 194 milioni di tonnellate di CO2e. Per avere un termine di paragone, 106 MtCO2eq sono le emissioni del Belgio nel 2023. E non è un qualcosa da cui si possa tornare indietro. Almeno, non nel breve periodo. I sistemi d’arma sono complessi: per fabbricarli e metterli in funzione servono anni. Il che significa vincolarsi a lungo termine a infrastrutture ad alta intensità di emissioni.
Esiste un indicatore, il social cost of carbon, che esprime in termini monetari i danni economici e sociali di ogni tonnellata di CO2 emessa. Secondo questo calcolo, il riarmo dei Paesi Nato ha un costo collaterale che va dai 119 ai 264 miliardi di dollari l’anno. E stiamo parlando di 31 Stati che, messi insieme, rappresentano solo il 9% delle emissioni globali. Se i Paesi asiatici seguissero la stessa traiettoria di riarmo, anche l’obiettivo meno ambizioso dell’Accordo di Parigi sul clima (cioè mantenere il riscaldamento globale entro i 2 gradi) sarebbe definitivamente fuori portata.
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