Stati Uniti, torna l’appetito per i rischiosi prestiti cartolarizzati
Negli Stati Uniti i prestiti cartolarizzati sono tornati in auge. Le cifre sono lontane da quelle dei primi anni Duemila, ma i rischi esistono
Come se la crisi del 2008 non fosse mai esistita. Wall Street si sta nuovamente tuffando sulla trasformazione di prestiti immobiliari in obbligazioni. Ciò che in termini tecnici si chiama cartolarizzazione. A spiegarlo è un’analisi del Wall Street Journal, secondo la quale il settore – nel quale le società finanziarie fungono da intermediarie e cedono grandi quantitativi di prestiti agli investitori attraverso strumenti ad hoc – è in crescita esponenziale.
Emissioni per 42 miliardi di dollari
Soltanto nel secondo trimestre di quest’anno, le emissioni sono arrivate a toccare un valore complessivo di 42 miliardi di dollari. Un dato che, secondo la società specializzata Inside Mortgage Finance, sfiora i massimi registrati negli anni che precedettero il terremoto finanziario di tredici anni fa.
Si tratta di un problema non indifferente, poiché i prestiti in questione sono spesso quelli maggiormente a rischio. Quelli, non a caso, che non possono essere rifinanziati dai due organismi semi-pubblici Fannie Mae e Freddie Mac: due finanziarie che dominano il mercato dei prestiti ipotecari, beneficiando del sostegno dello Stato.
Anch’esse operano cartolarizzazioni, e garantiscono agli investitori il rimborso delle obbligazioni che sottoscrivono. Ma non per tutti i beni: alcuni vengono infatti esclusi. Sia Fannie Mae che Freddie Mac, ad esempio, hanno fortemente limitato le esposizioni su determinate seconde case. Inoltre, prosegue il Wall Street Journal, se le banche possono concedere prestiti a ditte individuali sulla base della semplice analisi dei conti correnti (non potendo tali società, per definizione, produrre buste paga), ciò non basta per i due organismi semi-pubblici statunitensi.
Malgrado i rischi, i prestiti cartolarizzati suscitano interesse
Ma malgrado i rischi, e nonostante l’esperienza del 2008, gli acquirenti sul mercato non mancano. Anche perché i rendimenti, per compensare l’assenza di garanzie, sono generalmente piuttosto elevati. Il che, in un periodo prolungato di tassi estremamente bassi, risulta allettante per molti.
Il solo dato rassicurante è legato al fatto che, sempre nel secondo trimestre del 2021, le emissioni più a rischio – le cosiddette private label – hanno rappresentato solamente il 4% del totale delle obbligazioni che presentano come sottostante dei prestiti ipotecari. Al contrario, nel 2006, subito prima della crisi, la quota di prodotti subprime era pari al 35%.
Le esposizioni sono più basse rispetto agli anni pre-crisi del 2008
Va detto, inoltre, che la qualità dei prestiti soggiacenti dovrebbe, almeno teoricamente, essere migliore rispetto a quelli cartolarizzati nei primi anni Duemila. Ad oggi, infatti, il tasso di mutui che presentano difficoltà di pagamento (benché non necessariamente in default) è di circa il 6%. Infine, i prodotti proposti agli investitori appaiono meno “sofisticati” rispetto a quelli pre-crisi del 2008.
Tuttavia, i segnali di un tentativo di accettare rischi sempre più elevati è evidente. E il rischio che un ingranaggio del meccanismo si inceppi, provocando il panico nei mercati e facendo crollare il sistema, non può essere escluso.