Cos’è la speculazione e perché troppa finanza fa male

La speculazione è il più classico dei meccanismi per "fare i soldi dai soldi". E anche quello che rende la finanza un pericolo per l'economia reale

Andrea Barolini e Claudia Vago
La speculazione è il più classico dei meccanismi per "fare i soldi dai soldi" con la finanza
Andrea Barolini e Claudia Vago
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La finanza, si sa, è il modo per «fare i soldi dai soldi». E uno dei meccanismi più collaudati è quello che viene chiamato “speculazione”. Il termine viene da specula. Cioè la vedetta romana che scrutava l’orizzonte per scorgere in anticipo eventuali nemici. Speculare significa dunque anche osservare. Lo speculatore è quindi semplicemente qualcuno in grado di “guardare lontano”, di prevedere il futuro? Non esattamente. O meglio, sicuramente lo speculatore ha la vista lunga. Ma lo fa per una ragione precisa: guadagnare denaro.

Ma partiamo dalle basi. In linea generale, attraverso i titoli scambiati sui mercati finanziari sono possibili due forme di guadagno. Una è data dai rendimenti di un titolo, l’altra dal comprarlo a un prezzo e rivenderlo a un altro. Se vi sembra complicato, pensate a una casa. La comprate a 100.000 euro e poi l’affittate a 1.000 euro al mese. Una seconda possibilità è comprare la casa a 100.000 euro e rivenderla dopo un anno a 110.000.

Lo stesso avviene con la maggior parte dei titoli finanziari. Compro un’azione di una determinata impresa. Se questa a fine anno distribuisce
degli utili ai suoi azionisti, io ne intascherò una parte. Ma posso comprare l’azione a un determinato prezzo e, se questa sale sul mercato, la rivendo, guadagnando una certa somma.

Come funziona la speculazione?

È essenzialmente su questa seconda forma di guadagno che si basa la speculazione. Chi opera sui moderni mercati finanziari non aspetta certo anni per avere un’eventuale distribuzione di utili da un’azione o la cedola degli interessi da un’obbligazione o da un titolo di Stato. Al contrario, quello che interessa è il profitto veloce. E se le mani di un operatore di Borsa sono veloci, non potranno mai esserlo come gli algoritmi dei computer. È per questo che da anni chi vuole massimizzare la speculazione utilizza l’high-frequency trading. Ovvero software in grado di effettuare migliaia di transazioni ogni ora. Guadagnando anche sulla più piccola oscillazione di prezzo.

Il trucco, dunque, è comprare a poco e vendere a tanto. Ma come fanno i prezzi a salire e scendere? Dovrebbe essere un meccanismo semplice, la base stessa dell’economia: domanda e offerta. Se un dato prodotto è molto richiesto (domanda forte) o molto raro (poca offerta) il prezzo crescerà. Se, al contrario, non lo vuole nessuno (poca domanda) e tutti lo vogliono vendere (molta offerta) il prezzo scenderà.

Il neoliberismo, tra dottrina e realtà

Da almeno un trentennio siamo immersi in una dottrina economica nota come neoliberismo, secondo la quale proprio questo meccanismo è alla base della “straordinaria efficienza” dei mercati. La teoria immagina infatti che le spinte provenienti da domanda e offerta possano garantire un equilibrio. Il libero mercato sarebbe dunque un meccanismo in grado di regolarsi da solo. Nel quale lo Stato meno si immischia e meglio è. Secondo i neoliberisti, infatti, sono sufficienti poche regole e qualche controllo per evitare le storture.

La realtà, purtroppo, è ben diversa. Innanzitutto, il modello presuppone che tutti coloro che si affacciano al mercato abbiano a disposizione le stesse informazioni e dunque possano farsi un’idea della domanda e dell’offerta di un bene. In secondo luogo, si presuppone che tutti gli attori della finanza siano perfettamente razionali. Cerchiamo di capire perché.
L’idea di fondo è che se tutti vogliono comprare mele – o qualsiasi altro prodotto – vale a dire se c’è molta domanda, il prezzo salirà. Se il prezzo sale però molti inizieranno a spostarsi su altri prodotti e compreranno pere o arance, o andranno a cercare le mele da un’altra parte. La domanda smette di aumentare, e si torna a un nuovo equilibrio.

La “straordinaria efficienza” dei mercati, così poco straordinaria ed efficiente

Proviamo ora a trasporre lo stesso ragionamento al mercato finanziario. Immaginiamo un’azienda chiamata Pincopallino S.p.A. E immaginiamo che le sue azioni quotate in borsa salgano. Vedendo il rialzo, molti investitori vorranno comprarla, sperando che dopo il titolo continui la sua corsa. Tanta domanda spingerà così al rialzo il prezzo. E cosa avviene quando il prezzo di un’azione sale? Che altri investitori vorranno acquistarla! Più il prezzo sale più c’è domanda, e più c’è domanda più il prezzo sale. È l’esatto opposto della teoria dei mercati efficienti. Ed è la base stessa del continuo formarsi di quelle che vengono definite “bolle speculative”. Che premieranno, tra l’altro, chi ha avuto informazioni in anticipo rispetto agli altri. E ha potuto comprare prima, a prezzo più basso, scommettendo sul rialzo del titolo.

Detto ciò, qualora la speculazione fosse una minima parte delle transazioni, il sistema potrebbe forse comunque tenere. Il problema è che, da decenni, le transazioni sui mercati sono in larga parte dettate proprio dalla volontà di speculare. Non dalla volontà di puntare su un’azienda perché se ne ritiene buona la politica industriale, perché la si ritiene sana, per la si ritiene solida e dunque capace di crescere negli anni. Niente di tutto questo: si investirà su quel titolo semplicemente perché si hanno aspettative sul suo andamento nel breve periodo.

Crisi e instabilità sono la base del gioco

E quando sono le grandi banche o i più importanti fondi d’investimento del mondo a muoversi in questo modo, i mercati finanziari non possono che essere preda dell’instabilità. Così, le continue crisi e l’instabilità non sono un fastidioso effetto collaterale della finanza, ma la base stessa del gioco. Se la realizzazione del mio profitto dipende dal comprare a poco e vendere a tanto il mio unico obiettivo è il massimo profitto nel minore tempo possibile. Per cui ho due strade a disposizione: o aumento la differenza di prezzo tra acquisto e vendita, oppure riduco il tempo dell’operazione.

È chiaro perciò che chi specula avrà tutto l’interesse ad avere a che fare con mercati che presentano grandi oscillazioni nei prezzi. Nessuno ad esempio specula sui titolo di Stato tedeschi, perché sono molto stabili. Ben più divertente giocare sul prezzo di materie prime che sono spesso sulle montagne russe.

E se si vuole aggiungere la velocità, magari condita dal trading ad alta frequenza garantito dai computer, la strada è spianata.

La finanza va sempre più veloce

A inizio 2015 una ditta che posa cavi transoceanici tra l’Europa e gli USA ha speso 300 milioni di dollari per ridurre i tempi di trasmissione dei segnali tra le Borse sulle due sponde dell’Atlantico. 300 milioni di dollari.

D’altra parte, il sistema è sempre più utilizzato. Basti pensare a quanto accaduto in occasione del “flash crash” della Borsa di New York. Era il 6 maggio 2010, giornata di profonda preoccupazione, dalle parti di Wall Street, per la crisi del debito greco. Ebbene, tra le 14:42 e le 15:07 di quel giorno, il Dow Jones, il più noto indice azionario della Borsa di New York, perse il 9% del suo valore. Inizialmente si pensò a terrorismo, a un attacco informatico, persino al dito grassoccio di un operatore di borsa. Dopo cinque mesi di indagini la SEC, l’autorità di vigilanza sulla borsa statunitense, ha appurato che in quei 25 minuti di follia una singola transazione di grandi dimensioni, per effetto della massiccia presenza di algoritmi di trading ad alta frequenza, ha generato un effetto-domino che ha fatto crollare l’intera Borsa.

La bolla dei tulipani

Come accaduto 400 anni prima. 400? Sì, proprio 400. Nel ‘600, infatti, si produsse un evento simile, benché non veloce come quello del flash crash. All’epoca, i tulipani andavano enormemente di moda. Li volevano le corti di tutta Europa, i nobili, i ricchi, i poveri. La domanda era tale che tutti si dilettavano nella speculazione sui tulipani. Persone di ogni ceto convertirono le loro proprietà in contante per investirlo in fiori. I prezzi dei beni di prima necessità salirono di nuovo gradualmente: con loro, anche case, e terre, cavalli e carri, beni di lusso di ogni genere crebbero di valore.

@ Jan Bruegel il Giovane, Allegoria della tulipomania/Wikimedia commons

I tulipani divennero in brevissimo tempo un vero e proprio asset finanziario, al pari delle quote azionarie nelle società informatiche nei primi anni duemila.

Nel 1636 un bulbo di tulipano poteva essere scambiato per un carro e due cavalli, completi di bardatura: il prezzo più alto fu l’equivalente odierno di una cifra compresa fra i 50 e i 70.000 euro. I bulbi, in qualche modo, sono l’equivalente odierno dei contratti detti futures. Addirittura, nella fase più intensa della speculazione non avvennero infatti contestuali consegne dei bulbi: i venditori promettevano di consegnare il bene nella primavera successiva (quella che oggi si chiamerebbe vendita allo scoperto) e i compratori acquistavano un diritto alla consegna, da rivendere a terzi dopo poche settimane ad un prezzo maggiorato.

La fine giunse inesorabile. Siamo nel 1637. Alcuni investitori cominciarono a liberarsi dei bulbi, lasciando adito alla convinzione che i compratori sarebbero diminuiti di lì a poco, determinando una caduta rovinosa del prezzo. La corsa a vendere divenne panico, e il panico follia collettiva. Quanti avevano acquistato bulbi o contratti futures chiedendo soldi in prestito si ritrovarono rovinati nel giro di qualche giorno.

Una situazione analoga si è ripetuta nella Francia di Flippo d’Orleans, dove tra il 1716 e il 1720 possiamo assistere a una crisi del debito pubblico degenerata in una crisi speculativa, con una dinamica molto simile a quella odierna in molte parti del mondo: anche allora il consistente indebitamento pubblico non era il frutto di accorte politiche redistributive della corte, ma del mantenimento dello sfarzoso status quo dell’ancien régime, subito dopo la scomparsa del Re Sole.

La speculazione che attacca gli Stati

Ma non è tutto. La speculazione può anche non avere nel mirino un titolo ma una nazione intera. Oggi, con l’aiuto degli strumenti finanziari cosiddetti derivati, ciò è possibile.

Prendiamo un derivato chiamato Credit Default Swap (CDS). Esso non è altro che un’assicurazione che si può acquistare sul rischio di fallimento del soggetto che emette un titolo. Se il soggetto è lo Stato, e il titolo è un titolo di Stato, io posso comprare dei CDS. Il cui valore crescerà all’aumentare del rischio. In altre parole, più lo Stato che ha emesso il titolo sarà a rischio fallimento, più aumenterà il valore del CDS. Fino a compensare, in caso il fallimento avvenisse sul serio, l’investimento perduto (perché lo Stato non sarebbe più in grado di ripagare il debito contratto).

Problema: le regole del libero mercato non indicano che chi ha comprato un CDS debba aver davvero comprato anche i titoli di Stato sui quali si «assicura». Tradotto: è come se fosse consentito comprare un’assicurazione su furto e incendio per un’automobile che noi non abbiamo. È chiaro che avremo tutto l’interesse affinché quel mezzo venga davvero rubato o vada a fuoco, per intascare il premio. È così che, alcuni anni fa, la Grecia è stata spinta sull’orlo del baratro.